Come scrisse Voltaire alla fine del Settecento, “chi di saline vuole veramente discorrere, occorre che giunga qui, nell’occidente della Sicilia…vecchie, vecchissime saline fondate già dai Fenici…”. Una meta da appuntarsi in un viaggio alla scoperta della costa occidentale della Sicilia, fra Trapani e Marsala, insieme all’Isola di Mothia, museo archeologico a cielo aperto con i resti di un’antica conolia fenicia e alla Riserva Naturale Orientata Isole dello Stagnone, straordinario ecosistema che racchiude il tutto. Attorno alle “SEI”, Saline Ettore e Infersa, è nato il cosiddetto saliturismo, neologismo creato proprio qui nel 2016 che sta a indicare un insieme di attività di turismo esperienziale di tipo culturale, storico ed enogastronomico, che punta a promuovere la “civiltà” del sale marino e di tutto ciò che questa attività ha rappresentato per il territorio dall’antichità a oggi. L’esperienza inizia con la visita del Mulino d’Infersa e l’annesso percorso multimediale del museo, e poi può proseguire con la degustazione di piatti al Mamma Caura, struttura ricettiva ricavata in una caserma degli anni ’30. Magari al tramonto, con l’ultimo sole che illumina le vasche di “fioritura” del sale creando emozionanti giochi di luce.
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La performance della struttura è contrassegnata graficamente da una, due o tre corone, a seconda del punteggio percentuale, ottenuto durante la visita di valutazione, basato sui seguenti criteri:
Qualità del servizio, Promozione del Territorio, Identità e Notorietà.
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Seduti sui gradini del teatro antico di Segesta, lo sguardo si perde in una verde vallata che digrada dolcemente verso il mare. Per chi c’è stato, nulla da invidiare al teatro di Epidauro, nel Peloponneso, e nemmeno a quello di Siracusa, dall’altra parte della Sicilia. Siamo in provincia di Trapani, di cui il Parco Archeologico di Segesta è una delle principali attrazioni. Mancarne la visita sarebbe un peccato, perché aggirarsi fra i resti dell’antica città degli Elimi, popolo di cultura e tradizione peninsulare originario di Troia, regala una sensazione di pace e lascia ricordi di bellezza senza tempo. Splendido, oltre al teatro che ogni estate fa da sfondo a un Festival dedicato a tutte le forme d’arte, dalla danza alla musica, dalla recitazione alla poesia, anche il tempio in stile dorico perfettamente conservato, che fa immaginare il potere di questa antica colonia che nel 307 a.C. fu distrutta da Agatocle di Siracusa, il quale la ribattezzò Diceòpoli, “città della giustizia”, per poi rinascere sotto il dominio dei Romani. Quest’ultimi infatti, grazie alla leggendaria comune origine troiana, la esentarono da tributi, le diedero in gestione un vasto territorio e le permisero una nuova fase di prosperità. Non solo, tra il II e I secolo a.C., Segesta venne totalmente riprogettata, assumendo un aspetto fortemente scenografico, subendo poi gli influssi della cultura musulmana e infine normanno-svevo.
Fra gennaio e aprile e nei mesi autunnali, la Cascata delle due Rocche di Corleone dà il meglio di sé. L’acqua del fiume San Leonardo, affluente del Belice, scorre copiosa e trasforma quei 4 metri di balzo in un’attrazione nota anche al di fuori della provincia di Palermo. Il contesto è da set cinematografico: il laghetto che si forma ai piedi della cascata assume sfumature verdastre, la roccia tutt’attorno ha colori e conformazione da canyon del Far West, e una volta attraversata la fitta vegetazione, si arriva dinanzi al Convento del SS Salvatore. L’escursione è di quelle che soddisfano sia chi è in cerca di un contatto con la natura, sia degli appassionati di arte e architettura, in quanto il Parco Naturale della Cascata delle due Rocche è inserito nella più vasta Riserva naturale orientata Bosco della Ficuzza, Rossa Busambra, Bosco del Cappelliere e Gorgo del Drago, che al suo interno custodisce anche la splendida Casina Reale di Caccia voluta da Ferdinando I delle Due Sicilie, capolavoro architettonico del primo Ottocento.
In Sicilia non mancano certo i siti archeologici, ma vicino Vizzini, in provincia di Catania, ce n’è uno speciale, di archeologia industriale dell’Ottocento. Si tratta della Cunziria, un vero unicum, formato da un piccolo borgo costituito da 40 case-bottega, alcune a più piani, con la chiesetta dedicata a Sant’Eligio come cuore del paese. Il nome dialettale suggerisce l’antico mestiere che qui veniva praticato fino a un secolo fa: la concia delle pelli, un’attività per secoli fiorente ma abbandonata con il sopraggiungere dell’industrializzazione. Cristallizzato in un’epoca che non c’è più, la Cunziria conserva il suo fascino, lasciando immaginare la vita che qui si faceva un tempo, dietro quelle mura incrostate, nelle piazzette e nelle stradine dove fichi d’India e piante di sommacco creano un labirinto in cui è bello perdersi. Una realtà che ricorda quasi un set cinematografico, ma anche un po’ i racconti di Giovanni Verga, e non è un caso. Lo scrittore era nativo proprio di Vizzini, dove ambientò parecchie novelle, e qui furono girate alcune scene de la “Cavalleria Rusticana” e “La Lupa”.
Con 288 tombe a grotticella, la Necropoli di Realmese è di tipo Pantalicano, simile cioè alla celebre necropoli di Pantalica, in provincia di Siracusa. Qui siamo invece a 3 km da Calascibetta, nell’ennano, nel cuore della Sicilia centrale. Due le epoche di origine: le prime tombe risalgono all’età protostorica, cioè al IX secolo a.C., mentre le altre sono di età arcaica, del VI secolo a.C., in parte frutto di un riutilizzo delle precedenti fasi “costruttive”.
A riportare alla luce la necropoli di Realmese sono state una serie di campagne di scavo, la prima delle quali risalente agli anni 1949-1950. Condotta dall’archeologo Luigi Bernabò Brea, fece emergere numerosi reperti, fra ceramiche, coltellini, anelli, orecchini e fibule, utili per la datazione del sito archeologico. Monili e oggetti sono oggi esposti presso il Museo Regionale Paolo Orsi di Siracusa.
Oggi si trova in provincia di Enna, ma quando nel 1388 la Cattedrale di Nicosia, dedicata a San Nicola di Bari, fu ufficialmente riconosciuta come parrocchia, apparteneva all’arcidiocesi di Messina. Le sue origini risalgono a circa un secolo prima, agli inizi del Trecento, a quando la Sicilia era terra del regno di Federico II d’Aragona. Consacrata nel 1340 anche se non ancora ultimata, la Cattedrale conserva al suo interno opere di notevole valore, come la Cappella di San Crispino, sede della Confraternita dei Calzolai, un tetto ligneo dipinto, vera rarità per la Sicilia del Quattrocento, la Cappella del Redentore, con il trittico marmoreo del Redentore realizzato dal celebre Antonello Gagini, autore anche del fonte battesimale situato nella navata di sinistra.
I ruderi del Castello di Gresti hanno il fascino tipico dei luoghi misteriosi, di cui si sa poco o niente ma che sanno di vissuto. Di proprietà privata da lungo tempo, è noto sin dal XIV secolo, quando fungeva da avamposto al centro del “triangolo” compreso fra Aidone, Valguarnera e Raddusa. L’edificio, composto da un torrione e da una serie di stanze ingrottate, da cui deriva l’appellativo di Castello di Pietratagliata, sorge su una cresta rocciosa di natura arenitica, a cavallo del torrente Canne o Gresti, a cui fa da diga naturale. La piana ai suoi piedi spazia all’infinito, in un territorio incontaminato pressoché privo di costruzioni.
A questa fortezza è legato il ricordo di un’antica leggenda che ancora si tramanda: un tempo, sulla facciata dell’edificio c’era un’epigrafe di difficile interpretazione che, una volta tradotta nel modo corretto, avrebbe consentito al fortunato cavaliere di trovare un grande tesoro. La realtà narra che nell’800 furono rinvenute sulla collina parecchie monete d’argento e di elettro coniate da una zecca dell’età punica. Forse, anche in virtù di questi ritrovamenti, la leggenda continua a suscitare proseliti e ad alimentare speranze di trovare tesori segreti.
Sono passati più di dieci secoli da quando i saraceni conquistarono Mazara del Vallo e costruirono la Casbah, e ora si è tornati a parlare arabo per le strette vie di questo quartiere storico. All’origine di questo ritorno al passato ci sono una serie di fattori: il primo è stato il terremoto che nel 1981 ha colpito tutta la Valle del Belice, che danneggiò molti edifici anche alla Casbah costringendo i pescatori locali a trasferirsi nella “nuova” Mazara. Poi il fattore “scomodità” delle viuzze, un tempo pensate per impedire l’accesso degli invasori e oggi inadatte alla circolazione delle auto. Infine, l’abbassamento dei prezzi nel quartiere che ha attratto molti emigranti tunisini. Ecco dunque che il cerchio si è chiuso, facendo tornare alle origini questa zona assai caratteristica che ancora adesso trasmette un grande fascino.
Marettimo è l’isola delle Egadi più lontana dalla costa trapanese, ed è anche la più impervia e aspra, con una conformazione montagnosa che la fa quasi somigliare a un grande scoglio. Il lato esposto al mare aperto è pressoché disabitato e sferzato quasi sempre da vento e onde, mentre quello interno, verso la Sicilia, offre calette riparate e spiaggette dove è bello rifugiarsi o gettare l’ancora per un bagno con vista sul villaggio di appena 400 abitanti. Fra questo pugno di case di pescatori oggi per lo più riadattate a case vacanze si può trovare anche chi offre lezione di yoga. Ebbene sì, si sceglie la location all’aperto e ci si rilassa, nel silenzio rotto solo dalla risacca e dal verso i qualche gabbiano.
Nel Centro Storico di Palermo, e precisamente al civico 6 di Via Torremuzza, si trova uno di quei gioielli architettonici che si rischia di perdere, perché da fuori, eccetto che per l’insegna, non si intuisce ciò che si va poi a scoprire una volta varcata la soglia. Invece, ecco il Teatro Ditirammu, singolare per la sua pianta quadrangolare e per i soli 52 posti a sedere che ne fanno uno dei teatri più piccoli d’Italia, e certamente l’unico nel suo genere.
Le origini della Compagnia di Canto Popolare Ditirammu risalgono agli anni ’30, periodo in cui andava ancora in voga la formazione di canto folklorico. All’epoca, la direzione artistica era affidata al maestro Carmelo Gioacchino e alle ricerche musicali di Giovanni Varvaro, musicista capace di passare dalla chitarra al friscaletto fino al marranzano. Allo stesso Varvaro si deve nel 1934, in occasione del matrimonio del principe Umberto di Savoia, la creazione del Coro della Conca D’Oro, il primo dei cori folkorici siciliani, attivo fino alla fine degli anni ’50. La scuola che ne nacque fu uno di quei modelli che ha lasciato il segno. Giovanni Varvaro e Irene D’onufrio hanno dato vita a una dinastia di artisti, fra cui anche figli e nipoti, trasferendo ad essi il modo interpretativo del sentimento popolare siciliano. Tra i suoi allievi, Vito Parrinello e Rosa Mistretta ne hanno seguito le orme, tramandando i loro insegnamenti e proseguendo la tradizione di famiglia a sua volta passata ai figli Elisa e Giovanni, che dal 2000 si sono impegnati nella creazione di laboratori artistici per bambini e ragazzi. Molti i cimeli di famiglia esposti nel teatro, così come nell’adiacente piccolo “CantoMUSEO”.
Necropoli preistoriche, catacombe cristiane, oratori rupestri, eremi monastici e resti di nuclei abitativi di varie epoche. La valle fluviale di Cava Ispica è un condensato di storia, archeologia, arte e natura, che per 13 km si sviluppa lungo l’altopiano ibleo, fra Modica e Ispica. La macchia mediterranea invade ogni spazio, alternando le visite culturali alle attività di puro escursionismo, che da queste parti si può svolgere in totale sicurezza grazie a Sicilia in Cammino, una rete di guide ambientali professioniste e di piccole associazioni naturalistiche che hanno fatto del trekking il loro mestiere. E “Trekking con Aperitivo” alle Cave d’Ispica è uno dei programmi più gettonati, che consente di trascorrere una giornata fra degustazione di prodotti tipici degli iblei e passeggiate lungo la Cava Ispica. Il percorso è di 4 km circa, e tocca una necropoli con abitazioni rupestri e un castello sicano, un’abitazione a più piani unica nel suo genere. L’attività termina al rifugio di Sicilia in Cammino, dove è allestito un buffet con prodotti di qualità, vino tipico della zona, come il DOCG Cerasuolo di Vittoria.
Palermo, Corso Calatafimi 267. E’ qui che si trova una vera rarità, il Real Albergo dei Poveri, un edificio monumentale fondato nel 1733, con lo scopo di accogliere poveri inabili, storpi, giovani vagabonde e orfane. L’iniziativa nacque da alcuni privati, fra cui Ferdinando Francesco Gravina, principe di Palagonia, per poi essere ripresa durante il regno di Carlo di Borbone. Nel 1746 ebbero inizio i lavori, ma ci vollero parecchi anni perché la struttura venisse inaugurata. Ciò avvenne nel 1772, sotto il regno di Ferdinando III. Nel 1898, il Real Albergo dei Poveri fu adibito soltanto all’accoglienza delle donne, e il suo nome mutò in Albergo delle Povere. Nel 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale, l’edificio fu seriamente danneggiato e solo al termine della guerra fu restaurato. Oggi, l’attività per così dire alberghiera è stata sostituita da quella di spazio per eventi, convegni e mostre, il tutto sotto la gestione della Regione Siciliana che ne ha acquistato una parte, mentre il resto dell’edificio continua ad essere di pertinenza dell’istituto Principe di Palagonia e Conte Ventimiglia.
Bruno-arancio, rosso vinaccia e grigio antracite. L’Isola di Alicudi è una tavolozza di colori dalle sfumature intense, le cui rocce sono ora granulose, ora lisce e tondenggianti, ora plasmate dalle onde e dal vento come opere d’arte, o semplicemente solcate da spaccature impressionanti. Ecco così, in un ideale periplo dell’isola, sfilare una dopo l’altra la Rupe del Perciato, lo Scoglio della Palumba davanti alla Praia della Palumba e lo Scoglio Galera. Fra queste, una delle più iconiche è proprio la Rupe del Perciato, uno splendido arco naturale poco distante dal porto, che sembra quasi il risultato di una antichissima colata lavica lungo il fianco della montagna. Una foto accanto a questa opera naturale, soprattutto al tramonto, è uno dei riti d’obbligo per chiunque scelga Alicudi come buen retiro.