A far parlare del borgo marchigiano di Ortezzano, in provincia di Fermo, è stato soprattutto un dizionario: il celebre vocabolario di latino “Campanini-Carboni”, da oltre un secolo nelle memorie scolastiche degli studenti di classico e scientifico. Qui era infatti nato nel 1856 Giuseppe Carboni, latinista di fama che lo pubblicò per la prima volta nel 1911 per Paravia, insieme al collega Campanini, di Roma. Non poteva dunque che essere intitolata a lui la biblioteca comunale, che ad oggi vanta un patrimonio totale di circa 4000 volumi, fra cui una notevole raccolta letteraria donata dal Carboni stesso.
La formazione di questo straordinario latinista prende avvio qui a Ortezzano, ma gli studi classici, per lui una vera rivelazione, si svolgono a Recanati, sotto la guida dello zio, un frate cappuccino. Dal borgo natio del Leopardi si trasferisce poi a Fermo, dove studia al seminario arcivescovile e consegue il diploma di maestro. A 20 anni è già in cattedra e torna ad Ortezzano, dove insegna alle scuole elementari per 16 anni. Un periodo che gli permette di coltivare in parallelo la sua passione per il latino, fino a quando, nel 1892, viene chiamato come docente presso il Ginnasio di Fermo dove rimane per 11 anni.
Nel 1903 è a Roma. Inizia per lui il più fecondo per la sua attività di latinista, che prima lo porta alla pubblicazione del dizionario, e poi gli vale la nomina di Cavaliere Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia nel 1926. Gli ultimi tre anni della sua vita li trascorre nel paese d’origine.
Nel 2002, in concomitanza con l’ennesima ripubblicazione del dizionario, dal titolo il “Nuovissimo Campanini-Carboni”, nel borgo marchigiano viene organizzata in suo onore la prima edizione del “Certamen”, un concorso di portata internazionale di traduzioni dal Latino per giovani studenti. A oggi, a Ortezzano si può visitare la Casa-Museo Carboni.
Avatours / types of tourists: Turista Culturale
Borgo di Ortezzano
Con i suoi quasi tremila anni di storia, il borgo marchigiano di Ortezzano, nel fermano, è un crogiuolo di storia, arte e cultura. I primi reperti parlano di un insediamento di Piceni già nel IX secolo a.C., cui seguirono i romani che divisero questo territorio in centurie per distribuirlo ai veterani. Dall’VIII secolo Ortezzano iniziò a essere parte dei domini farfensi, ossia gravitanti sotto il potere dell’Abbazia di Farfa, nel Lazio, mentre a partire dal IX, precisamente nel 927 d.C., furono i duchi di Spoleto a modificarne l’aspetto erigendo il Castrum Ortezanii, con mura castellane per proteggere l’abitato dalle frequenti scorrerie di Ungari, Saraceni e Normanni. Per secoli, fino al ‘700, fu poi parte dello Stato Pontificio, periodo durante il quale prese piede il sistema delle mezzadrie, con una capillare organizzazione del territorio in poderi sempre più frazionati. Questo determinò uno sviluppo dell’economia fortemente connesso all’agricoltura e a tutto ciò che comportava trasformazione e commercializzazione dei prodotti. Fra le colture che si diffusero di più c’erano olio, vino, frutta e verdure, e parallelamente l’allevamento di suini. Da qui derivò una cucina a base di piatti quali l’agnello arrosto co’ battuto, il castrato, la polenta, i vincisgrassi, leccornie oggi celebrate da una serie di sagre ed eventi a tema enogastronomico. Ne sono un esempio alcuni eventi che animano il calendario: “Somaria: l’Asino tra arte natura e poesia” per riscoprire il valore della “slow life”, il Festival Filosofico e il Certamen Latinum, dedicati questi ultimi all’illustre latinista Giuseppe Carboni nativo di Ortezzano e coautore del vocabolario di latino “Campanini-Carboni”.
Venendo a ciò che Ortezzano offre a un turista anche di passaggio, in Largo del Carmine ci sono due dei monumenti che vale la pena appuntarsi in un viaggio alla scoperta della provincia di Fermo. Si tratta della Torre Ghibellina, del XIII secolo, vessillo del borgo, e della Chiesa del Carmine, detta anche del Suffragio, in quanto proprietà dell’omonima Confraternita. Commissionata da Giulio Papetti, avvocato della curia romana, fu costruita tra il 1715 e il 1725 in un interessante mix di stile barocco e neoclassico. La Chiesa, a pianta a croce latina con copula ottagonale e campanile risalente al 1847, al suo interno mostra una decorazione moto sobria, in cui spiccano gli elementi architettonici della muratura, realizzata totalmente in mattoni rossi, elemento iconico delle Marche. Quattro piccole sagrestie con copertura a volta si trovano ai quattro angoli, collegate l’una all’altra raffigurazioni della Via Crucis Xilografica.
Proseguendo la visita del centro storico, si punta verso la Chiesa di Santa Maria del Soccorso, che deve il suo nome a un affresco che adorna una delle cappelle laterali: datato al 1323 e ad opera del monaco benedettino Giacinto di Morro di Valle, raffigura Santa Maria delle Grazie e i Santi Gerolamo e Maria Maddalena, il tutto a memoria della chiesa precedente scomparsa, appunto la Chiesa di Santa Maria delle Grazie. Altre opere da ammirare sono una via Crucis di scuola romana e di ottima fattura, un fac-simile della Bibbia aurea di Borso D’Este, alcune vetrate in mosaici policromi istoriati, un mosaico in oro che corre lungo il cornicione interno e una serie di arazzi posti ai lati dell’altare e provenienti niente meno che dalla Reggia di Caserta. Da non perdere un organo datato al 1751, capolavoro di Giuseppe Attili, nativo di Ortezzano, Maestro costruttore di organi del Settecento, fra i migliori della scuola di Montecarotto, nell’anconetano.
Auditorium Sant’Antonio da Padova
Fra le Confraternite di maggior peso della Diocesi di Ortezzano c’è quella del Santo Spirito, committente di uno degli edifici sacri più significativi del borgo marchigiano: la Chiesa di Sant’Antonio da Padova, definita “rurale” perché situata “fuori dalla porta del castello”. Dopo anni di abbandono, nel 1811 viene acquistata dal demanio per poi essere ceduta nel 1831 dalla Tesoreria generale di Roma ai sacerdoti Benedetto e Raffaele Carboni in vista di un restauro e della riapertura al culto.
Nel 1863 tutto ciò si è compiuto e la piccola chiesa rurale cambia destinazione d’uso e diventa chiesa cimiteriale. Qui viene sepolto il noto latinista prof. Giuseppe Carboni, che per i cultori del genere è un po’ la “voce” narrante di quanto giunto a noi dagli autori antichi. Ma la storia di questo luogo non trova ancora pace: negli ultimi anni, la Chiesa di Sant’Antonio da Padova a Ortezzano viene sconsacrata e diventa auditorium comunale, ospitando concerti e mostre.
Chiesa di Santa Maria del Soccorso
Giuseppe Attili fu un Maestro costruttore di organi del Settecento, fra i migliori della scuola di Montecarotto, nell’anconetano. Era nativo di Ortezzano, della provincia di Fermo, e qui si può ammirare uno dei suoi capolavori. Si tratta di un organo datato al 1751, conservato nella Chiesa di Santa Maria del Soccorso, la cui storia è frammentata nei secoli. Fino al 1450, qui c’era la Chiesa di Santa Maria delle Grazie, poi sostituita dall’attuale edificio, ulteriormente ingrandito nel 1585 e nel 1759. Al 1956 risalgono invece la modifica del presbitero, ulteriormente allungato, e la nuova cappellina della Madonna.
La Chiesa di Santa Maria del Soccorso ha pianta a croce greca e deve il suo nome a un affresco che adorna una delle cappelle laterali: datato al 1323 e ad opera del monaco benedettino Giacinto di Morro di Valle, raffigura Santa Maria delle Grazie e i Santi Gerolamo e Maria Maddalena, il tutto a memoria della chiesa precedente scomparsa. Altre opere da ammirare sono una via Crucis di scuola romana e di ottima fattura, un fac-simile della Bibbia aurea di Borso D’Este, alcune vetrate in mosaici policromi istoriati, un mosaico in oro che corre lungo il cornicione interno e una serie di arazzi posti ai lati dell’altare e provenienti niente meno che dalla Reggia di Caserta.
Chiesa Madonna del Carmine
In Largo del Carmine a Ortezzano ci sono due dei monumenti che vale la pena appuntarsi in un viaggio alla scoperta della provincia di Fermo. Si tratta della Torre Ghibellina, del XIII secolo, vessillo del borgo, e della Chiesa del Carmine, detta anche del Suffragio, in quanto proprietà dell’omonima Confraternita. Commissionata da Giulio Papetti, avvocato della curia romana, fu costruita tra il 1715 e il 1725 in un interessante mix di stile barocco e neoclassico. La Chiesa, a pianta a croce latina con copula ottagonale e campanile risalente al 1847, al suo interno mostra una decorazione moto sobria, in cui spiccano gli elementi architettonici della muratura, realizzata totalmente in mattoni rossi, elemento iconico delle Marche. Quattro piccole sagrestie con copertura a volta si trovano ai quattro angoli, collegate l’una all’altra raffigurazioni della Via Crucis Xilografica.
La perla del Sannio – Borgo Sant’Agata de’ Goti
“Perla del Sannio“ e “gioiello della Valle Caudina”. I soprannomi di Sant’Agata de’ Goti anticipano già tutto e vanno ad enfatizzare ciò che racconta anche il nome, frutto di una summa dei vari periodi storici che l’hanno interessata: nell’VIII secolo, fu intitolata alla Santa catanese e dunque fu costruita la Chiesa di Sant’Agata de Amarenis, mentre in epoca normanna, intorno al 1117, si aggiunse la seconda parte, con l’arrivo nel territorio di Sant’Agata della famiglia di feudatari francesi Drengot. Ed ecco appunto Sant’Agata de’ Goti.
Anche architettonicamente, la cittadina in provincia di Benevento – il cui Centro Storico è inserito nel circuito de “I borghi più belli d’Italia” – è un perfetto connubio fra lasciti di epoca romana, longobarda e del XIX secolo. Non solo. Dal 2005, grazie alla ricca campagna che la circonda, fa parte dell’associazione Nazionale Città del Vino. Basta fare due passi fuori dall’abitato per ritrovarsi davanti a un’antica masseria, a contrade di case contadine vecchie di secoli.
Il consiglio da conservare, per apprezzare Sant’Agata de’ Goti nel suo insieme, è di andare sul ponte del torrente Martorano: da qui si può notare come il Centro Storico sorge su un promontorio di tufo che ricorda una mezzaluna, materiale fra i più friabili e instabili, ma che qui è stato sfruttato al meglio con costruzioni adatte al caso. A guardarlo sembra quasi un miracolo, sospeso sulla vallata in cui scorre placido il torrente.
Paleolab – Museo del Parco Geopaleontologico
Alghe fossili e gusci di bivalvi con un diametro fino a 20 cm si trovano inclusi nelle pietre di colore grigio chiaro utilizzate per lastricare strade e piazze di Pietraroja, nel beneventano, e del vicino borgo di Cusano Mutri. Il perché di questo fenomeno è presto detto: nel Cretaceo, Pietraroja era lambito da una laguna. Ora di quella laguna se ne ha traccia nei reperti conservati nel Paleolab – Museo del Parco Geopaleontologico, sistema multimediale che permette al visitatore di viaggiare indietro nel tempo di 100 milioni di anni, per ritrovarsi immersi nell’Oceano Tetide, a quando cioè questa zona della Campania era popolata da pesci, coccodrilli e salamandre, e soprattutto dallo Scipionyx Samniticus, un piccolo di celosaurus di cui è stato ritrovato un esemplare che rappresenta un vero unicum, con gli organi e le fibre muscolari ancora intatti.
Il percorso di visita del Paleolab di Pietraroja ricorda la scena del film Stargate, in cui varcando una soglia ci si ritrova in un’atra era: il viaggio ha inizio con un “ascensore geologico”, una sorta di teletrasporto grazie al quale in pochi secondi ci si ritrova nel Cretaceo. Gli exibit, le scenografie, i filmati e un grande acquario interattivo permettono nelle prime sale del museo di entrare in questo ambiente tropicale e di conoscerne gli abitanti. Il percorso termina con un excursus sulla storia degli esseri viventi sulla Terra ripercorsa attraverso i fossili.
Per stimolare le future generazioni di paleontologi è stato allestito un campo scavi per i bambini che vogliono cimentarsi con le fatiche ma anche le molte emozioni che regala questo mestiere, cui segue un laboratorio didattico dove è possibile, usando forme di gesso, creare un piccolo calco dei reperti esposti.
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I Castelli di Arcevia
Arcevia come Torino, o quasi. Questo piccolo borgo in provincia di Ancona ha la sua “Corona di Delizie”, esattamente come il capoluogo piemontese ha le Residenze Sabaude. Ebbene, Arcevia mostra fiera ancora oggi il suo circuito di 9 castelli medievali circondati da mura ben conservate, racchiusi entro un raggio di 15 chilometri.
Prima tappa, Caudino, cui si accede attraverso un pittoresco portale che introduce a un microcosmo risalente a sette secoli fa e dove fu combattuta una memorabile battaglia tra le forze Guelfe e Ghibelline.
Palazzo si presenta con possenti mura in pietra che sembrano cingere le pendici del Monte Caudino. Loretello è un suggestivo castello sorto intorno all’anno Mille, un tempo parte della Chiesa Ravennate. Vi si accede tramite una spettacolare porta con rampa di accesso, mura e torrioni. Le mura di Piticchio hanno anche un percorso di marciaronda coperto, e nell’insieme, il castello è fra i meglio conservati della zona, come pure San Pietro, più ridotto di dimensioni ma anch’esso pressoché intatto.
Presenta rivellini e torrioni il castello di Montale, rimasto al Medioevo anche all’interno della cerchia muraria, con tracce urbanistiche datate a circa sette-otto secoli fa.
Il castello di Avacelli ha una posizione a strapiombo particolarmente suggestiva, difesa naturale cui, a partire dal XII secolo, si aggiunsero mura e torrioni ancora oggi integri.
Nonostante i molti assedi e le battaglie avvenute ai piedi della Rocca di Castiglioni qui la fortezza risultano ancora possente e autentica, fattore che lo accomuna a Nidastore, castello del circuito di Arcevia situato in un territorio ricco di testimonianze preistoriche e con un centro medievale preservato.
Chiesa Collegiata di San Medardo
La Chiesa Collegiata di San Medardo ad Arcevia, nell’anconetano, sembra l’”appendice” di un museo o di una pinacoteca, perché visitandola, assorti nel silenzio che si conviene all’ambiente, si possono scorrere in fila il grandioso polittico e nella cappella del battistero la tavola centinata di Luca Signorelli, l’altare in maiolica invetriata e un dossale in terracotta smaltata di Giovanni della Robbia, il Giudizio Universale e il Battesimo di Cristo di Ercole Ramazzani, artista locale allievo di Lorenzo Lotto. E ancora, la Madonna del Rosario con i SS. Domenico e Caterina da Siena, capolavoro di Simone Cantarini il Pesarese (1612-1648), allievo prediletto e ribelle di Guido Reni, e la Visita di Re Lotario a S. Medardo di Claudio Ridolfi, discepolo del Barocci, e altre opere di Piergentile da Matelica e Venanzio da Camerino, Fra’ Mattia della Robbia, nonché la Croce processionale in argento del famoso orafo perugino Cesarino del Roscetto, di metà del Cinquecento. Non mancano neanche gli arredi lignei di pregio, qui incisi dagli abiti maestri intagliatori Leonardo Scaglia e Francesco Giglioni. Tutte opere che “vestono” di grazia la struttura poderosa a croce latina, in laterizio, e lo stile barocco, qui proposto in una versione sobria, tipica della metà del Seicento, periodo in cui l’edificio venne terminato. La visita termina nel Museo Parrocchiale, piccolo ma interessante spaccato della vita in un antico borgo marchigiano.
Il Gigante di Curinga
Il Gigante di Curinga. Una definizione che rende giustizia alla maestosità di questo platano orientale dell’Armenia, che nella sua base larga più di 3 metri può accogliere fino a una decina di persone, e con una circonferenza di 14,75 metri e un’altezza di 31,5, risulta il platano più imponente dell’Italia. Un altro dei suoi record è la longevità, poiché un’antica leggenda narra essere stato piantato più di mille anni fa da un monaco basiliano, sulle sponde di un ruscello nelle vicinanze dell’Eremo di Sant’Elia.