Valle d’Aosta

Italiano, francese, francoprovenzale valdostano, walser e piemontese. Sembra quasi impossibile, eppure, la Regione più piccola quanto a superficie (3.263 i kmq) e anche meno densamente popolata d’Italia – gli abitanti sono poco più di 122.000 per 38 persone a km2 – raccoglie in sé tutta questa ricchezza linguistica, che cela ovviamente anche una altrettanto abbondante ricchezza culturale. La Valle d’Aosta si presenta così, chiusa dalla cortina delle cime più alte d’Italia e dell’intero arco alpino, fra Cervino, Monte Bianco, Monte Rosa e Gran Paradiso, “lavagne” di pietra su cui l’alpinismo ha scritto alcune delle sue pagine più gloriose e avvincenti, imperniate su località sciistiche fra le più rinomate d’Europa, Cervinia e Courmayeur, capofila di 28 stazioni sciistiche di primo livello, con quasi 900 km di piste da discesa, 300 km per il fondo e un esercito di 200 guide alpine al servizio dei turisti più attenti e attivi. Il territorio, plasmato dalle glaciazioni, è dunque completamente montano, con un’altitudine media di 950 metri sul livello del mare e la presenza di spettacolari ghiacciai vallivi e fossili, come per esempio quello del Miage, parte del massiccio del Bianco. La zona meridionale della Regione è poi occupata dal Parco Nazionale del Gran Paradiso, il primo d’Italia, inaugurato nel 1922 per preservarne flora e fauna già allora a rischio di estinzione. Oggi, anche nei centri abitati dei piccoli comuni compresi o limitrofi all’area protetta, capita spesso di imbattersi in esemplari di stambecchi e camosci che scendono fino a valle in cerca di cibo, emozione quasi all’ordine del giorno per chi decide di intraprendere uno dei tanti percorsi escursionistici che permettono di scoprire le meraviglie del Parco.

Avvolti dal silenzio delle sue valli e cime incantate, può così capitare di sentirsi arrivati nello Shangri-La, quel luogo della perfezione dove l’anima trova ristoro grazie alle bellezze artistiche della Aosta di epoca romana, dei borghi romiti immersi nel verde o specchiati in un lago, delle chiesine di campagna dalle atmosfere mistiche, delle imponenti e magiche architetture quali quella del Forte di Bard e degli altrettanto iconici castelli di Fénis, Verrès, Saint-Pierre e Issogne. Geografia fisica e umana insieme aspre e favolose, patrimoni naturalistici che circondano quelli costruiti magistralmente dall’uomo che in un compendio stilistico di grande varietà, come in tutte le terre di transito e che fanno da “cerniera”, raccontano di dominazioni e commistioni culturali più o meno pacifiche, espresse anche attraverso feste, mestieri e piatti diventati di tradizione. Le testimonianze visive del passato ci riportano a un mondo ruvidamente guerresco, che si ritrova però anche in eventi “pastorali” come la Bataille des reines, i rituali scontri fra le mucche regine degli alpeggi che animano da sempre il calendario degli eventi autunnali. Accanto a queste manifestazioni di ispirazione rurale, ecco poi fare capolino lontane suggestioni celtiche, feste walser e non solo.
Il Carnevale è ovunque spettacolare, a Saint-Rhémy-en-Bosses come a Verrès o Pont-Saint-Martin, ma per scoprire le tradizioni locali l’appuntamento da non perdere è la Fiera di Sant’Orso, di scena il 30 e 31 gennaio ad Aosta, mostra-mercato dell’artigianato tipico e occasione unica per respirare un po’ di autentica vita di montagna in centro città. Per respirare il folclore locale da non perdere l’Assemblea regionale di canto corale che si tiene ogni anno ai primi di giugno nel Castello di Fénis.

 

Sicilia

Con la sovrapposizione di tredici dominazioni nell’arco di duemila anni, la Sicilia è oggi un puzzle di culture e tradizioni in grado di riassumere secoli di storia e civiltà fiorite nel bacino mediterraneo, di cui è pure l‘isola più grande. Grazie ai suoi quasi 26.000 km2 di superficie, è poi la Regione più estesa d’Italia, la settima isola d’Europa e, curiosità, la 45esima al mondo, comprendendo anche alcuni arcipelaghi, come quelli delle Eolie, delle Egadi, delle Pelagie, dello Stagnone e dei Ciclopi, oltre alle romite Ustica e Pantelleria.

Una varietas multiculturale enfatizzata da quella altrettanto generosa a livello geografico, offrendo un territorio vasto e suddiviso in nove province, ciascuna con la propria identità, ma dal 1946 assemblate in un’unica Regione a Statuto Speciale, e prima ancora, dal 1130 al 1816, nel Regno di Sicilia, annessa infine nel 1860 per plebiscito a quello d’Italia. Non è dunque un caso che, grazie a questo suo “identikit”, i sette siti siculi inseriti nel listing ufficiale del Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco comprendano sia luoghi d’arte che realtà naturalistiche: fra i primi, la Val di Noto con i suoi centri Barocchi, vale a dire Catania, Modica, Noto, Palazzolo Acreide, Caltagirone, Scicli e Militello; Siracusa e la Necropoli Rupestre di Pantalica in quanto una delle più grandi e meglio conservate di epoca preistorica; la Valle dei Templi di Agrigento; la Villa del Casale a Piazza Armerina, vicino Catania, grazie alla magnificenza dei mosaici e dell’architettura dell’edificio patrizio di epoca romana; la Palermo Arabo-Normanna, comprendente 9 beni tutelati, fra cui il celebre Duomo di Monreale e quello di Cefalù. Fra i siti Unesco naturalistici troviamo invece le Isole Eolie, dal fascino tipico di una terra di origini vulcaniche, e il Monte Etna, cuore dell’omonimo Parco, uno dei cinque regionali, insieme a quelli dei Monti Sicani, dei Nebrodi, delle Madonie e a quello fluviale dell’Alcantara. Unico Parco Nazionale è quello dell’Isola di Pantelleria, in virtù delle rare specie endemiche di flora e fauna, mentre infinite sono le riserve naturali, le aree marine e le zone umide protette, per un totale di 10,5% di territorio posto a vario titolo sotto tutela. Basti citare ad esempio la Riserva naturale integrale Grotta Conza, del Fiume Ciane e Saline di Siracusa, l’Oasi del Simeto, quella Orientata Bosco di Santo Pietro, di Cavagrande del Cassibile,  l’Oasi Faunistica di Vendicari e quella dei Pini di Aleppo. Fra le Aree marine protette, altrettanto numerose, Capo Gallo – Isole delle Femmine, quella di Torre Salsa e quella dell’Isola dei Ciclopi di fronte ad Aci Trezza, che già nel nome riecheggia miti e leggende qui mai sopite.

Proprio partendo da uno di questi punti di interesse così speciali si può cogliere una sorta di metafora della storia della Sicilia stessa: se è vero che la Necropoli di Pantalica è stato un tempo luogo di morte, lo era ed è in senso cristiano anche di resurrezione, un po’ come ci raccontano gli annali locali, in un continuum di distruzioni e rinascite, conseguenti a guerre, invasioni, eruzioni e terremoti che hanno caratterizzato ogni epoca, passata o vicina. Memorabile, per gli effetti catastrofici che causò soprattutto nella Sicilia Orientale, fu quello del 1693, da cui però si ebbe una ri-genesi artistica e architettonica che ha appunto portato a quel crogiuolo di tesori inestimabili che è oggi la Valle di Noto. Esuberante, esagerato, esibizionista, unico. Così hanno voluto il Barocco gli aristocratici di Scicli e Modica, nel ragusano, risalendo la costa est fino alle pendici dell’Etna, plasmando infine il centro storico di Catania. Simile ma allo stesso tempo diverso nello spirito è il Barocco di Palermo, lustro e vanto delle casate più “gattopardesche”, accostato a quel mix di stili che vedono una copiosa alternanza di epoche e culture, che va dalla reggia islamica della Zisa all’eleganza Liberty di Via Ruggiero Settimo.

Specchio di tanta opulenza di contenuti è anche la cucina, che varia a seconda della zona: se a est prevale una tavola semplice, nell’entroterra vince una versione ancora più schietta, mentre a ovest si fanno ancora sentire l’influsso arabo e i fasti di corte. Comune e diffuso ovunque è il concetto del piatto unico a base di pasta, condita con pesce o carne, oppure con le verdure, come l’intramontabile pasta alla Norma, originaria di Catania, o il trapanese cuscus, versione ittica di quello arabo. Il trionfo dei sapori lo si raggiunge poi al momento del dessert, idealmente un buffet infinito di dolcezza portata fino quasi all’eccesso, in una vera festa di colori, in cui pasta martorana e cassata spiccano su tutto. Superbi anche i vini, che affondano le radici nei secoli ma solo di recente hanno riscosso il meritato successo. Ipercromatiche, chiassose e sempre cariche di storia sono anche le feste tradizionali che animano la scena in ogni stagione dell’anno: il Festino di Santa Rosalia a Palermo e Sant’Agata a Catania sono le due patrone più celebri e celebrate, il Carnevale si traduce nell’Abballu di li Diavuli, mentre con il teatro dei Pupi si apprezza la rappresentazione della vita, a tratti grottesca ma straordinariamente ricca di suggestioni storiche.

Sardegna

Parlare di isola è riduttivo, perché la Sardegna è molto di più, è un continente. Non certo per estensione geografica, ma per varietas. La stessa storia geologica di questa terra, fisicamente separata e distante dalle masse continentali di Europa e Africa, ha determinato aspetti di assoluta particolarità, generati anche alla sua età: 600 milioni di anni incisi nella pietra, dalle scogliere a picco sul mare fino alle vette innevate dell’interno, che ne fanno la parte più antica di tutto il territorio italiano. Da qui deriva una ricchezza naturale straordinaria, oggi tutelata da grandi parchi nazionali – vedi quello dell’Asinara e dell’Arcipelago della Maddalena – da riserve naturali, oasi e zone protette locali, paradisi popolati da numerose specie di flora e fauna endemiche. Un universo che, per i non sardi, è davvero “altro”. Altro, del resto, era il popolo misterioso che ne ha firmato la storia con monumenti straordinari, i nuraghi, oggi testimoni di pietra d’un passato enigmatico, ma ancora vivo. Nelle feste, nelle tradizioni e nei sapori di una cucina vigorosa e inconfondibile, per esempio, come vigorose e inconfondibili sono, oltre le iconiche spiagge da cartolina, anche le terre dell’interno, le montagne, le foreste, i paesi e le città.

Insomma, la “differenza” della Sardegna è certamente un dato di fatto e una constatazione ormai ovvia, oltre che un sentimento della maggior parte dei sardi. Diversità intesa come naturalezza e naturalità, genuinità, arcaicità, primitività, preistoria vivente, ma anche nel suo rimanere sempre un luogo incontaminato, nell’animo e nella sostanza, nonostante, in alta stagione, diventi oggetto di un vero assalto. Per questo, la Sardegna, che grazie soprattutto alla Costa Smeralda è diventata simbolo di un’estate senza fine, è capace di riservare emozioni inaspettate, quelle di un mondo ancora tutto da scoprire. E non solo d’estate. In virtù del clima e delle mille ricchezze alternative al mare, oltre a offrire 1.949 km di coste è una meta da vivere tutto l’anno, ricca di profumi, di umori, di colori che, con il variare delle stagioni non perdono ma semmai mutano la propria malia e intensità.

Quella sarda resta nel complesso un’antropizzazione debole. Grande quanto la Sicilia, ha un terzo dei suoi abitanti, resta cioè un antico Paese rurale. Messaggio che si percepisce forte e chiaro nella fascinosa Gallura, rosa per le mille sfumature della sua pietra granitica onnipresente; nei suadenti torpori della “catalana” Alghero, la cui costa si incunea in misteriose grotte da esplorare; nel porticciolo di Bosa e nel suo magico entroterra; poi nelle leggende della selvaggia Ogliastra e nel “profondo centro” della Barbagia, fino a risalire il crinale del Gennargentu; nell’inaspettata vitalità di Cagliari, capoluogo sui generis con le spiagge che arrivano prossime al centro storico; e ancora nelle struggenti atmosfere del Sud-Ovest, che anticipano l’incanto dell’Isola di San Pietro.

Ma, al di là di questi e mille altri luoghi da fare propri, sono la storia e la cultura il filo conduttore di viaggi  indimenticabili. Basti citare le feste popolari, che da secoli tramandano suggestioni di rara forza evocativa, spesso legate alle ricorrenze del Carnevale o del santo patrono del paese. Ogni manifestazione si trasforma in un momento di sentita aggregazione popolare: ascoltare i muttos, i tipici canti a sfondo amoroso, ammirare con quanta grazia e dignità giovani e anziani indossano ancora i costumi tipici in caroselli colorati, significa vivere un pezzo di vita sarda, originale, spontanea, ancorata alle più antiche e fantasiose credenze. Ecco allora sfilare grandi processioni in costume, enormi ceri ondeggiare negli stretti vicoli, arditi cavalieri lanciarsi in rituali galoppate, uomini incappucciati intonare canti lugubri e centinaia di fedeli correre a piedi nudi su strade sterrate. Sacro e profano che si fondono in un tutt’uno di grande forza, che coinvolge tutti i sensi: l’udito con i suoi canti, la vista con i suoi richiami a maschere e costumi di ispirazione ancestrale, il tatto con la ruvida bellezza di tessuti, sculture e opere artigianali da comprare e portare a casa, l’olfatto e il gusto stimolati da sapori più di terra che di mare. Altro paradosso di quest’isola-continente abitata da un popolo più di pastori che di marinai.

Piemonte

Piemonte, “ai piedi del monte”. E che monti, verrebbe da dire, che in termini assoluti, fra vette alpine e Appennini, ricoprono tre quarti del territorio totale, precipitando da quote oltre i quattromila metri fino a dolci colline da “scalare” in bicicletta.

La bellezza del Massiccio del Monte Rosa era già ben nota a Leonardo da Vinci, che con i 4.609 metri di Punta Nordend pare quasi sovrastare il Massiccio del Gran Paradiso, la cui cima più alta, il Roc, si ferma a 4026 metri. Una realtà naturalistica così preziosa che quest’ultima, da Riserva Reale voluta da Vittorio Emanuele II, nel 1922 divenne Parco Nazionale del Gran Paradiso, aperto oggi a chiunque voglia esplorarne la ricca flora e fauna. La Regione vanta anche un secondo Parco Nazionale, quello di Val Grande, che ben pochi sanno essere l’area selvaggia più grande d’Italia, strategicamente collocata a soli 150 km da Torino e a meno di 100 da Milano. Ma ancora non basta, perché a questi due “giganti” verdi si aggiungono una sessantina di parchi e riserve regionali e biosfere che fanno del Piemonte un sogno per chi ama lo sport all’aria aperta: canoa, kayak, rafting, canyoning, oltre a ogni versione possibile di trekking, a piedi, su due ruote o a cavallo. Tutto questo quando non c’è neve, che in stagione trasforma pendii e tracciati in una rete infinita di piste da sci. Una località su tutte? Sestriere, ma potremmo anche dire Alagna Valsesia, Macugnaga, Bardonecchia, Sansicario…

Scendendo verso valle, si incontra quella teoria di colline che oggi chiamiamo Monferrato, Langhe e Roero, terre che richiamano il profumo di alcuni dei vini più pregiati al mondo, vanto di una cultura contadina che non si ferma ai calici da intenditori. Perché qui, ad accompagnare etichette che comprendono ogni sfumatura alcolica e di servizio, da quella più semplice “ da pasto” a quella da aperitivo fino alle bollicine da dessert e ai vini più strutturati da meditazione, c’è una ricca varietà di prodotti in grado di riempire una dispensa altrettanto raffinata: il riso, le paste fresche ripiene, i formaggi, le carni e i dolci, non c’è paese o provincia che non richiami ad almeno uno di questi sapori, a piatti della tradizione che da secoli popolano i menu di osterie e trattorie e oggi, in sofisticate versioni stellate, quelli di chef di fama internazionale.

E poi c’è l’abbondanza d’acqua, quel sistema di fiumi, cascate e laghi disseminati ovunque, dai romantici specchi d’acqua di montagna ai bacini più grandi, come il Lago Maggiore, di cui il Piemonte offre la “sponda grassa”, così chiamata perché costellata di destinazioni turistiche in voga già ai tempi d’oro dell’aristocrazia, torinese e meneghina insieme, che qui si ritrovavano fra ville e hotel di lusso, a Stresa e Verbania, di fronte al buen retiro principesco delle Isole Borromee. Pochi minuti di strada ed ecco il più piccolo ma suggestivo Lago d’Orta, perfetto per una passeggiata autunnale per ammirare il foliage, ma anche per un’esperienza più profonda, la salita al Sacro Monte di Orta, solo uno dei nove Sacri Monti distribuiti fra Piemonte e Lombardia, dal 2003 iscritti nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco.

Il turismo religioso è una di quelle voci che ritorna di frequente, in ogni provincia, tanto che la spettacolare Sacra di San Michele, appollaiata sulla sommità del monte Pirchiriano appena fuori Torino, è uno dei simboli della Regione stessa, al pari della Basilica di Superga.

Dunque una natura molto generosa, ma che l’uomo ha saputo a tratti addomesticare rendendola ancora più spettacolare o semplicemente fruibile. Ma poi, ci si guarda attorno e si scopre che non c’è collina che non abbia il suo castello o la sua torre di avvistamento, un campanile che scandisca il ritmo di una vita ancora contadina, o che vorrebbe esserlo almeno in vacanza, invitandoci a visitare quei borghi antichi che sanno di Medioevo, o città famose più come poli di prolifici distretti industriali che per le tante bellezze storico-artistiche. Biella, Ivrea, Alessandra, Cuneo, Asti, Novara, Vercelli, Verbano-Cusio-Ossola e Torino richiamano alla mente lanifici, laboratori orafi e gioiellieri, prodotti enogastronomici, high tech e auto, mentre è ben altro che regala esperienze da ricordare. Anche qui, basti un cenno a quel tesoro ancora troppo poco conosciuto che è la cosiddetta “Corona di Delizie”, circuito di residenze reali che dal cuore del capoluogo conduce nelle vicine campagne, dove Venaria Reale, Stupinigi, Racconigi, Rivoli e le altre dimore sabaude incluse in questo anello di 90 km di percorsi ciclabili stupiscono per la ricchezza di opere d’arte e architetture da sogno.

Molise

Verso la fine del Settecento, nella Reggia di Caserta facevano bella mostra di sé alcune opere del pittore tedesco Jakob Philipp Hackert, in cui Ferdinando I Re di Napoli era intento alla caccia al cinghiale nei pressi del ponte di Venafro, sul fiume Volturno. Scene di vita di un’altra epoca, ma non molto lontane dalla realtà attuale, perché il Molise di adesso, soprattutto quello dell’entroterra, non è poi così cambiato. Neanche dopo un evento “epocale” come quello occorso nel 1963, quando la prima legge di revisione della Costituzione della Repubblica modificò l’articolo 131 decretando la definitiva divisione di quell’entità unica che era stata fino ad allora la Regione “Abruzzo e Molise”. Un momento che sancì una nuova rinascita per entrambe queste due realtà del Centro Italia.

Natura, arte, tradizioni, mare e montagna. Il Molise offre tutto questo con la grazia di una terra a parte, chiusa alle spalle dai Monti della Meta, ultima propaggine dell’Appennino Abruzzese, dal Massiccio del Matese e del Sannio. Da queste morbide alture, la terra ridiscende in colline sinuose che scivolano sino al mare e anticipano il paesaggio del Tavoliere delle Puglie. Una terra chiusa e poco popolata, con due sole province, Campobasso e Isernia, con una densità abitativa che rispettivamente oscilla dai 72 ai 52 abitanti per kmq, che è capace di offrire una natura intatta e ammaliante nella sua solitaria asprezza e ricorda nelle fortificazioni della costa la minaccia dei Saraceni. Costa che, per quanto breve – 35 chilometri appena – si apre su un mare trasparente che guarda alla Croazia, in una lunga linea sinuosa spezzata solo dal promontorio dove è arroccato il borgo vecchio della città di Termoli, la più famosa località balneare della Regione. In un lento girovagare per le valli, ecco poi inattesi siti archeologici, castelli feudali, chiese romaniche e barocche e borghi medievali, in una varietas che rinnova sempre l’emozione del viaggio.

Il Molise, come un feudo difficilmente raggiungibile, ha anche saputo custodire tradizioni e accoglienza schiette e sincere. Basta una nota di zampogna per riportare a mondi altrove ormai scomparsi, ma non qui, dove la transumanza lungo i tratturi di montagna è ancora una realtà forte. Oppure, basta un rintocco di campana per far risuonare forte e chiaro l’orgoglio di un popolo che della fusione del bronzo ne ha fatta un’arte da esportazione “di peso”, è il caso dirlo, considerando che ogni campana da chiesa forgiata qui può arrivare a contare diverse tonnellate. Forme di artigianato che si fanno arte, unica e identitaria di una terra, così come le sagre e le feste che animano il calendario degli eventi, in un mix di religiosità e paganesimo che si ritrovano attorno al desco, gustando piatti tramandati di generazione in generazione.

Una Regione così poco nota da riuscire a ironizzare anche su questo suo essere rimasta (fortunatamente) avulsa dalla realtà del turismo di massa, tanto da coniare un hashtag ormai iconico, #ilmolisenonesiste, paradosso così azzardato da diventare addirittura un marchio registrato riconosciuto nel mondo.

Marche

In epoca romana le Marche non esistevano. Erano semplicemente quella terra denominata Piceno che ricopriva la maggior parte dei confini odierni, e per il resto appartenente all’Umbria. Dante stesso, nel quinto canto del Purgatorio, fece proferire al marchigiano Jacopo del Cassero le seguenti parole, che suonavano a dir poco lapidarie: “…quel paese / che siede tra Romagna e quel di Carlo”, dove per quest’ultimo si intendeva Carlo II d’Angiò, Re di Napoli. Destino da territorio di transito che proseguì con Carlo Magno, che una volta conquistato il regno longobardo pose sui vari confini una “marca”, allo scopo di contenere l’invasione di Arabi, Slavi e Avari. Ed ecco così la nascita delle Marche, che non furono un limes da poco, anzi, segnando il passaggio fra il mondo latino-germanico a nord e quello bizantino-arabo a sud. Dagli annali, emerge anche una data che ha fatto da spartiacque nella storia, e non solo quella locale: 26 dicembre 1194. In quel giorno vedeva la luce a Jesi Federico II di Svevia, futuro imperatore del Sacro Romano Impero, che onorò la sua “culla” col titolo di Città Regia. Visitandola è un continuo tributo a colui che fu ribattezzato “Stupor Mundi”, a partire dalla piazza centrale a lui dedicata, sorta sul sito dell’antico Foro Romano all’incrocio del Cardo e del Decumano massimi, proprio là dove si affaccia il palazzo nobiliare che lo vide venire al mondo che poi conquistò.

Caratteristica che rende le Marche una realtà pressoché unica fra le Regioni d’Italia è l’omogeneità del territorio, un paesaggio agricolo a perdita d’occhio esteso per il 69% su zona collinare e con ben l’82% dei comuni situati su quelle magnifiche onde tinte di verde e giallo oro come il grano che arrivano a lambire il blu del mare. Sono quindi i rilievi montuosi a occupare il restante 31% del territorio, comprendendo l’Appennino umbro-marchigiano che trova il suo picco nei 2.476 metri del Monte Vettore, nei Monti Sibillini, situati a cavallo fra tre delle cinque province, vale a dire quelle di Fermo, Ascoli Piceno e Macerata e parte dell’omonimo Parco Nazionale. Altra costante è quella che vede quasi tutti i fiumi e torrenti marchigiani nascere dalla catena appenninica e giungere al mare praticamente senza affluenti e formando gole spettacolari oggi meta di appassionati di trekking, MTB, rafting e canyoning: la Gola del Furlo, di Pioraco, dell’Infernaccio, delle Fucicchie, di Arquata e da ultimo quelle della Rossa e di Frasassi, che richiamano subito alla mente le immagini di un luogo straordinario, le Grotte di Frasassi, al centro dell’omonimo Parco naturale regionale. Scoperte casualmente nel 1972, costituiscono uno dei complessi carsici più grandi del mondo, e sono una tappa irrinunciabile in un viaggio di scoperta dell’entroterra.

Un comodo punto di partenza potrebbe essere a nord il Montefeltro, pezzo di terra appenninica un po’ marchigiana, un po’ romagnola, un po’ toscana, irto di rupi e rocche, di chiese romaniche o addirittura precedenti all’anno Mille, di “selve oscure” isolate e popolate da una ricca fauna. Lo si ritrova nelle tele di Giovanni Santi, il padre dell’urbinate Raffaello Sanzio, o nelle rocce che fanno da sfondo alla rossa e sensuale Maddalena di Timoteo Viti, anch’egli nativo di Urbino. Affacciandosi dalla Fortezza Albornoz, ammirando la teoria di dolci colline pennellate e la città che fu quartier generale del Ducato di Federico da Montefeltro, si capisce come e perché Raffaello abbia immaginato proprio qui un mondo di perfezione e armonia, dal 1998 classificata bene Unesco. Raggiungendo il mare, non si può non notare, a fare da spartiacque con la vicina Romagna, il promontorio su cui spicca il borgo di Gradara, altra eco dantesca in quanto “set” dell’amore travolgente di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini (Inferno, Canto V). Ridiscendendo da qui lungo i 173 km di costa che orlano l’“Adriatico selvaggio”, come amava definirlo Gabriele D’Annunzio, si passa con una certa repentinità da spiagge lunghe e sabbiose ad alte scogliere, come quella di San Bartolo e della Riviera del Conero, unici rilievi rocciosi prima di raggiungere il Gargano. Nell’ordine, ecco Gabicce Mare, Fano, Senigallia, Sirolo, Numana, Potenza Picena, Civitanova Marche, Lido di Fermo, Porto San Giorgio e Porto Sant’Elpidio, Cupa Marittima, Grottammare e San Benedetto del Tronto, cuore della Riviera delle Palme. Anche chi ama il relax in riva al mare non può però esimersi da quel lento zigzagare sui colli appena alle spalle degli ombrelloni, alla ricerca di uno dei tanti “Borghi più belli d’Italia”, molti dei quali con un toponimo che richiama una geologicalizzazione non proprio pianeggiante: Monte Grimano Terme, Montecassiano, Montecosaro, Montefabbri, Montefiore dell’Aso, Montelupone… A questi se ne aggiungono molti altri, ciascuno con la sua rocca o castello a guardia di antichi possedimenti: Corinaldo, Matelica, Mondavio, Mondolfo, Offagna, Offida, Tolentino, Treia, Visso… Impossibile elencarli tutti. Molti rientrano poi in quell’affascinante categoria architettonica dei borghi murati, che da secoli custodiscono palazzi nobiliari spesso trasformati in musei, come pure un’infinità di abbazie e santuari degni di nota. Fra quest’ultimi, va citata in primis la Basilica della Santa Casa di Loreto, meta di pellegrinaggio mariano, al centro di una città che è essa stessa murata e modello di architettura gotico-rinascimentale, tanto da sembrare un pezzo di Roma cinquecentesca incastonato fra le colline marchigiane. Alla sua costruzione lavorarono alcuni dei maggiori geni del passato: il Bramante, il Sansovino, il Sangallo e più tardi, nel XVIII secolo, il Vanvitelli. Pochi chilometri ancora e ci si ritrova a Recanati, avvolti dalle suggestioni di Giacomo Leopardi. La casa dove vergò poesie indimenticabili è lì, aperta al pubblico di studenti, studiosi e curiosi di guardare là, oltre quella siepe e l’ermo colle, salvo poi scoprire che erano frutto della fantasia di un giovane innamorato e disperato. Altra città che potrebbe essere a buon diritto annoverata fra quelle “ideali”, rinascimentali e non solo, è Ascoli Piceno, il cui centro interamente in travertino è fra le mete più visitate.

Emergenza assai meno evidente è quella dei teatri storici: ben 73 sparsi in ognuna delle cinque province, un vero primato a livello nazionale, che sciorina una lista di capolavori in gran parte dell’800: il Teatro della Rocca a Sassocorvaro, il Teatro delle Muse nel capoluogo Ancona, La Nuova Fenice e Osimo, il Teatro Vaccaj a Tolentino, lo spettacolare Sferisterio di Macerata, assurto a modello di teatro en plein air. A Pesaro e Fabriano, che vanno segnalate anche in quanto “Città creative Unesco”, ecco infine due luoghi che ricordano i loro concittadini più celebri: il Teatro Gioacchino Rossini, scenario dell’annuale Festival Musicale Lirico, e il Teatro Gentile da Fabriano, che nel borgo diventato capitale della produzione di carta pregiata, apprese i primi rudimenti dell’arte pittorica che lo portò fino a Roma.

 

Lombardia

Il motore economico dell’Italia ha un epicentro ben preciso, la Regione Lombardia, che insieme a Baden-Wurttembergen, Catalogna e Alvernia-Rodano Alpi è uno dei quattro centri nevralgici del Pil dell’Europa. Un assetto che trova riscontro anche in un dato demografico: il territorio è suddiviso in 1506 Comuni, il più alto numero del Paese, distribuiti a loro volta in undici province più la città metropolitana di Milano. Un quadro d’insieme che potrebbe far immaginare paesaggi completamente urbanizzati, oltre che industrializzati, ma che invece lascia ampio spazio alla natura. Anzi, a onor del vero, la Lombardia è stata la prima Regione italiana a creare aree protette di vario genere e livello, arrivando a coprire una superficie pari al 29% del totale, istituendo parchi fluviali – il primo in Europa fu nel 1974 il Parco naturale lombardo della Valle del Ticino – parchi agricoli e locali, 24 parchi regionali, 65 riserve e 30 monumenti nazionali. A ciò si aggiunga la presenza di una porzione piuttosto consistente del Parco Nazionale dello Stelvio, condiviso con Trentino e Alto Adige, e del sito di Monte San Giorgio, Patrimonio dell’Umanità in “comproprietà” con la vicina Svizzera, meta ben nota ad appassionati ed esperti di paleontologia per i molti depositi fossiliferi. Ebbene, flora e fauna sono quindi preservate, tanto che lupi, stambecchi, cervi, caprioli, camosci, volpi, ermellini e marmotte sono solo alcune delle specie oggetto di “safari” fra la Pianura Padana e le Prealpi.

E se di tutela dei beni si tratta, bisogna allora considerare anche i dieci siti inseriti nel listing ufficiale dell’Unesco, che ne fanno la Regione con il maggior numero sui 53 totali nel Bel Paese. Scorrendo questa rosa di dieci soggetti non si può non notare la grande varietà di beni posti “sotto chiave”: partendo dal centro storico di Milano, ecco una delle opere più rappresentative di tutto il patrimonio artistico lombardo e forse d’Italia, la Chiesa e il Convento Domenicano di Santa Maria delle Grazie con l’affresco de L’Ultima Cena di Leonardo Da Vinci. Sempre nell’ambito delle emergenze architettonico-artistiche si collocano il Complesso monastico longobardo di San Salvatore-Santa Giulia, le chiese di Santa Giulia e le Domus dell’Ortaglia a Brescia, i centri storici di Mantova e Sabbioneta, le Mura venete di Bergamo e i Sacri Monti del Rosario a Varese e della Beata Vergine del Soccorso a Ossuccio, nel comasco. Fra i beni preistorico-archeologici, troviamo il Parco di Castelseprio e i siti palafitticoli delle Alpi, oltre alle incisioni rupestri della Val Camonica. Unico nel suo genere il villaggio operaio di Crespi d’Adda, modello di un sistema industriale che fu, così come la Ferrovia retica dell’Albula e del Bernina, che travalicando le Alpi a bordo di un treno a scartamento ridotto consente di vivere una sorta di viaggio spazio-temporale memorabile per il contesto paesaggistico.
Insomma, da queste parti non si corre certo il rischio di annoiarsi in un territorio tanto vasto – la Lombardia è quarta per dimensioni dopo Sicilia, Piemonte e Sardegna – e multiforme, che comprende per il 47 % grandi pianure, per il 12% rilievi collinari che risalgono la china fino a ergersi a vere e proprie montagne (41 %), numerosi bacini lacustri che vanno dai piccoli specchi d’acqua come quello di Monate, d’Idro e Iseo, fino ai tre principali del Nord Italia – Maggiore, Como e Garda – e fiumi importanti quali l’Adda, l’Oglio, il Mincio, il Ticino e ovviamente il Po.

In Lombardia, montagne e pianura non sono dunque così lontane l’una dall’altra. Se si arriva in aereo, poco dopo aver sorvolato il Monte Bianco, ci si ritrova sui laghi e da lì in pochi minuti sulla Padania. Gli appassionati di arrampicata, salendo sulle cime Prealpine, possono sfiorare con lo sguardo un bel tratto di arco alpino, dal Monte Rosa all’Ortles, e da qui, nelle giornate particolarmente terse, fino alla Valle dell’Adige, mentre chi si affaccia sul delizioso balcone naturale di Brunate, sopra Como, può arrivare a inquadrare le vette piemontesi a ovest e quelle svizzere a nord. Stendhal, habitué delle valli lombarde, si faceva portare sulla collina sopra Montevecchia, nel lecchese, per ammirare all’orizzonte gli Appennini, alle spalle di Parma, forse, chissà, traendo ispirazione per uno dei suoi romanzi più celebri, La Certosa di Parma.
Estremamente favorita in questo zigzagare fra bellezze di ogni genere, la Lombardia consente sempre di girare l’angolo e trovare qualcosa di gratificante per occhi e spirito: Bergamo e Brescia sono due insospettabili scrigni di palazzi, chiese, strade medievali e piazze silenziose fra le quali si nascondono scavi archeologici di notevole importanza. Pavia trova la sua arteria nel Ticino, attraversato dal Ponte Coperto, il suo cuore nell’Università e nella Basilica di San Michele Maggiore e la sua appendice nella Certosa, appena fuori porta, così come Palazzo Te si trova alle porte di Mantova, splendidamente riflessa nei suoi tre specchi d’acqua – il Lago Superiore, di Mezzo e Inferiore, bacini fluviali del Mincio – e arroccata attorno al Castello e alle molte vestigia della corte dei Gonzaga. Nella Bassa, c’è un gioiello prezioso, Lodi, dove brillano la Piazza Maggiore per i portici, il Duomo e il Broletto. Ma ciò che è un vanto antico qui si coniuga con il fermento del lavoro, nelle fabbriche e nei campi, una costante anche per la provincia di Cremona, la città del “Torrazzo”, che svetta accanto alla Cattedrale di Santa Maria Assunta, del violino, eccellenza artigianale dai tempi di Stradivari e dal 2012 Patrimonio orale e immateriale dell’Umanità, del torrone di mandorle e della mostarda, che raccoglie in barattoli di vetro tutti i frutti della campagna circostante.
Assai operosa è pure Monza, porta della Brianza, ricca di industrie e di storia millenaria, segnata dalla regina Teodolinda e da Napoleone, che volle il grande e rigoglioso parco di Villa Reale, polmone verde che oggi fa da quinta verde anche al noto circuito di Formula 1.

Con più di mille km di piste da sci, la Lombardia si colloca sul terzo gradino del podio nazionale per il numero di impianti, dopo Piemonte e Alto Adige, proponendosi come destinazione invernale di tutto rispetto. In Valtellina, provincia di Sondrio, si trovano le due ski area più gettonate: Bormio, storica località termale, e Santa Caterina Valfurva, mentre in Valle Spluga, nella Comunità Montana della Valchiavenna, la meta è senz’altro Madesimo. Queste zone richiamano alla mente anche la buona tavola, dove dopo una bella sciata non mancano mai i pizzoccheri, fra i piatti più rappresentativi della cultura gastronomica lombarda, accompagnati da un buon calice di vino, magari di Inferno – una delle 5 sottozone del Valtellina Superiore – o di Sforzato, entrambi DOCG regionali. Gli altri input enologici si assiepano nella zona del bresciano, nella spumeggiante Franciacorta e nell’Oltrepò Pavese. Le province di Lecco, Como e Varese evocano invece l’idea di placide sponde lacustri lungo le quali bordeggiare, ammirando giardini e ville storiche un tempo rifugio dell’aristocrazia milanese che amava ritirarsi in villeggiatura ora a Bellagio, Menaggio o Varenna, ora ad Angera, Luino o Varese.
A ciascuno il suo buen retiro, ieri per una fuga stagionale da una metropoli d’altri tempi, e oggi nel fine settimana, lasciando la città più silenziosa e “spoglia” d’auto, ideale per chi vuole godersi in tranquillità una visita al Castello Sforzesco, a Sant’Ambrogio o al Museo Poldi Pezzoli, una passeggiata lungo il Naviglio Grande o nei vicoli della vecchia Brera, un concerto al Teatro alla Scala o una salita sulle guglie del Duomo, per arrivare a un soffio dalla Madonnina e dominare la gran Milan.

Liguria

Riviera di Levante e Riviera di Ponente. Da qualunque parte la si guardi, la Liguria sembra non poter uscire da questa forte dicotomia marina, dettata dalla sua conformazione geografica a mezza luna che letteralmente non lascia spazio all’immaginazione, e neanche alla collocazione delle sue quattro province – Genova, Imperia, Savona e La Spezia – tutte sul mare. Ma ridurre la Regione a queste due metà e alla sola zona litoranea sarebbe un errore.

Partendo dall’entroterra, Liguria significa anche montagne, o meglio, Alpi Marittime, che incoronano un paesaggio di ispide vette digradanti in colline, ricoperte da boschi spesso tutelati da parchi e riserve naturali e, verso il mare, da coltivazioni di vario genere, olivo e vite in testa. Montagne così incombenti da essere ben visibili anche pied dans l’eau, mentre si sta serenamente distesi sulla spiaggia. Un colpo d’occhio raro e che non si dimentica.

Man mano che si scende di quota, si incontrano piccoli avamposti di civiltà contadina, borghi fermi a secoli fa, dove la vita gira ancora attorno a un torchio per frangere le olive, alla ruota di un mulino, alle serre per fiori e ortaggi e a qualche bottega artigianale. A Ponente accade per esempio a Taggia, Badalucco, Dolceacqua, Dolcedo e su, fino a Triora, il “paese delle streghe”. Scene da film in bianco e nero, che a valle si colorano delle tinte vivaci delle case di pescatori che attirano milioni di turisti. In particolare, accade a Varigotti e nella piccola Noli, gloriosa ex Repubblica Marinara, e all’estremità opposta, a Levante, in quella sequenza di spettacolari anfratti denominata Cinque Terre. Frammenti di terra con paesini arroccati su speroni di roccia e terrazze costruite su pendenze vertiginose dove la mano dell’uomo ha plasmato il paesaggio a suo uso e consumo: le “fasce”, i muretti in pietra viva che disegnano gran parte della costa, altro non solo che un ingegnoso escamotage per sezionare e rendere sfruttabili i pendii di colline altrimenti impraticabili. Oggi, Vernazza, Monterosso al Mare, Corniglia, Manarola e Riomaggiore sono collegati dal Sentiero Azzurro, 18 km di panorami e scorci mozzafiato che corrono da Sestri Levante a Porto Venere, “porte” di accesso del percorso. Un’unicità assoluta messa sotto tutela con il Parco Nazionale delle Cinque Terre e, dal 1997, riconosciuta Patrimonio Mondiale dell’Umanità.

Citando la bella Porto Venere non si può non parlare delle mille suggestioni artistiche ispirate alla Liguria lasciate negli scritti di Lord Byron, Goethe, Hemingway e Mary Shelley, nei quadri di William Turner o nelle note di Richard Wagner. D’altro canto, questa è la terra del Golfo dei Poeti, di cui Porto Venere insieme a San Terenzo, Tellaro, Sarzana, Lerici e all’Isola di Palmarola è la “perla”. Da qui, risalendo verso Genova, si entra nelle atmosfere glamour e da Vip di Portofino, la cui baia sembra un’esposizione permanente del celebre Salone Nautico genovese, per via degli yacht da favola sempre all’ancora.

Da Camogli a Nervi, ecco invece il Golfo Paradiso, nome evocativo che lascia ben sperare chi si accinge a visitare gli stretti vicoli di questi borghi marinari oggi vocati al turismo più o meno luxury. Quasi un’anticipazione di quell’inestricabile groviglio di carruggi che è il centro storico di Genova, altro bene Unesco da conservare con cura, insieme al Sistema dei Palazzi dei Rolli, aristocratica reminiscenza del momento più fortunato della storia della Serenissima, la Repubblica Marinara di Genova. Là, oltre il porto ridisegnato da Renzo Piano, si riprende l’Antica Aurelia che da duemila anni collega Roma alla Francia, in un continuun di quasi 700 km lungo i quali si incontrano città, paesi, culture.

Da Pegli in giù è la volta di una sequela infinita di spiagge e borghi, passando per i quattro Comuni della Baia della Ceramica, il Golfo dell’Isola di Bergeggi, l’antica Repubblica marinara di Noli, la capitale della MTB di Finale Ligure, Alassio e il suo muretto firmato dagli artisti, davanti alle inaspettate architetture barocche di Cervo e alle ville Liberty di Bordighera. Nel mezzo, Sanremo, tappa nazional popolare che mette d’accordo tutti, con un lungomare di palme e fiori che offre a sorpresa anche due soste culturali: Villa Nobel, appartenuta proprio a quell’Alfred Nobel, l’ideatore del Premio per eccellenza, e Villa Ormond, con un giardino che è un vero compendio di botanica mediterranea.

Questo viaggio ideale non potrebbe trovare finale più adatto di quello offerto dai Balzi Rossi, a pochi minuti dal confine con la Francia: scogliera alta 100 metri in calcare dolomitico, che pare quasi riportarci sulle Alpi, i resti di una villa romana e, in una grotta a picco su un mare cristallino, un sito paleolitico fra i più importanti d’Italia. E come se non bastasse, a due passi, sul vicino promontorio di Mortola, i Giardini Botanici di Villa Hanbury, memoria di una Belle Epoque “all’inglese” che da queste parti sembra non essere ancora tramontata.

Un concentrato di bellezza naturale e “costruita” perfettamente espresso da Italo Calvino, ligure Doc, che scrisse «qui basta passare un’unghia sulla crosta della civiltà e la natura rispunta in tutta la sua gloria quasi primordiale».

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