A metà strada fra il Mar Adriatico e i Monti Sibillini, su un colle che guarda sulla Valle dell’Aso, si trova Montelparo, borgo medievale con una notevole presenza di chiese. Su Via Castello, un tempo area in cui sorgeva una fortezza difensiva, affaccia la quattrocentesca Chiesa di S. Michele Arcangelo, in precedenza intitolata a S. Angelo. Dei tre portali, quello centrale è gotico-rinascimentale e i due laterali cinquecenteschi, e aprono su un’unica navata che va a terminare su un presbiterio rialzato. Un tempo, i due portali laterali davano accesso uno all’Oratorio della Confraternita del SS.mo Sacramento, l’altro all’antico Monastero Benedettino, creando un complesso assai articolato che lascia intendere l’importanza di Montelparo, all’epoca centro religioso di spicco.
Della Chiesa di S. Michele Arcangelo meritano un’annotazione a parte gli affreschi del presbiterio, dovuti a maestranze dalmate del ‘400, oltre agli affreschi lungo le pareti laterali tra cui quello rappresentante il Mistero della Umana Salvezza attribuiti al Maestro Giacomo Bonfini da Patrignone. Gli affreschi, insieme al monastero e alla cripta, sono oggetto di un restauro, che punta a restituire la giusta importanza a questo pezzo di storia, del territorio fermano e dell’arte.
Gregorio Petrocchini è stato uno degli abitanti più illustri di Montelparo. Appena eletto Cardinale, volle donare al suo paese un luogo di culto, la Chiesa di San Gregorio Magno, consacrata nel 1615.
La sua generosità non si fermò però qui: donò alla chiesa numerosi oggetti di culto, importanti reliquie e pure un considerevole lascito per i prelati che dovevano gestirla.
Buona parte di questa ricchezza andò però distrutta nel 1745 a causa di un incendio. Fra i pochi oggetti superstiti di quella tragedia ci sono ancora oggi i quattro altari laterali, i paliotti di manifattura romana e i quadri settecenteschi della Via Crucis, da attribuire alla bottega fermana del Troiani. Elemento di spicco sono pure le tre campane collocate nel campanile a vela, fra cui una datata al 1354 e proveniente dal Castello di Bucchiano.
Fra le tante case-torri e campanili del borgo marchigiano di Amandola, in provincia di Fermo, spicca il Torrione del Podestà, in cima al poggio di Castel Leone, l’antica Platea Comunis oggi nota come Piazza Alta, là dove si concentravano edifici civili e religiosi, in una sorta di Agorà medievale. Il suo aspetto lineare e compatto non lascia trasparire i numerosi interventi, datati al 1352, al 1518 e al 1547, anno in cui il Torrione del Podestà venne completamente ricostruito. Ultimo tassello ad arrivare fu, nel ‘700, il grande orologio al centro della facciata, proveniente dal campanile della Chiesa di S. Francesco.
In un paesaggio incontaminato che guarda sui Monti Sibillini, si colloca l’Abbazia benedettina dei Santi Ruffino e Vitale, fra i numerosi gioielli architettonici del borgo medievale di Amandola, nel fermano. Lo stile romanico riporta alla seconda metà del XI secolo, e ai numerosi passaggi di proprietà documentati sin dal 1267, anno in cui i Signori di Monte Pasillo, pur di mantenere i diritti sul monastero e i suoi terreni, vendettero al Comune di Amandola il castello, il Monte di Marnacchia e le 180 famiglie che vi risiedevano, cosa che poi si ripeté dieci anni dopo con un’altra famiglia, i Signori De Smerillo.
Le tre navate dell’abbazia, in semplice pietra, conducono fino alla cripta, che ne ha cinque di navate, e dietro l’altare custodisce il vero tesoro, le reliquie di San Ruffino martire. Da ammirare sono anche due affreschi di stile tardo medioevale: la Vergine in trono con il Bambino e la Madonna col Bambino che porge a San Ruffino martire un ramoscello.
Per secoli, l’Abbazia ha esercitato un forte impulso su tutto il contesto sociale, sia dal punto di vista religioso che economico, fino a quando, dopo anni di abbandono e molteplici ricostruzioni, non è stata restaurata insieme all’adiacente monastero, e ora è pronta ad accogliere credenti e visitatori.
In Largo del Carmine a Ortezzano ci sono due dei monumenti che vale la pena appuntarsi in un viaggio alla scoperta della provincia di Fermo. Si tratta della Torre Ghibellina, del XIII secolo, vessillo del borgo, e della Chiesa del Carmine, detta anche del Suffragio, in quanto proprietà dell’omonima Confraternita. Commissionata da Giulio Papetti, avvocato della curia romana, fu costruita tra il 1715 e il 1725 in un interessante mix di stile barocco e neoclassico. La Chiesa, a pianta a croce latina con copula ottagonale e campanile risalente al 1847, al suo interno mostra una decorazione moto sobria, in cui spiccano gli elementi architettonici della muratura, realizzata totalmente in mattoni rossi, elemento iconico delle Marche. Quattro piccole sagrestie con copertura a volta si trovano ai quattro angoli, collegate l’una all’altra raffigurazioni della Via Crucis Xilografica.
Giuseppe Attili fu un Maestro costruttore di organi del Settecento, fra i migliori della scuola di Montecarotto, nell’anconetano. Era nativo di Ortezzano, della provincia di Fermo, e qui si può ammirare uno dei suoi capolavori. Si tratta di un organo datato al 1751, conservato nella Chiesa di Santa Maria del Soccorso, la cui storia è frammentata nei secoli. Fino al 1450, qui c’era la Chiesa di Santa Maria delle Grazie, poi sostituita dall’attuale edificio, ulteriormente ingrandito nel 1585 e nel 1759. Al 1956 risalgono invece la modifica del presbitero, ulteriormente allungato, e la nuova cappellina della Madonna.
La Chiesa di Santa Maria del Soccorso ha pianta a croce greca e deve il suo nome a un affresco che adorna una delle cappelle laterali: datato al 1323 e ad opera del monaco benedettino Giacinto di Morro di Valle, raffigura Santa Maria delle Grazie e i Santi Gerolamo e Maria Maddalena, il tutto a memoria della chiesa precedente scomparsa. Altre opere da ammirare sono una via Crucis di scuola romana e di ottima fattura, un fac-simile della Bibbia aurea di Borso D’Este, alcune vetrate in mosaici policromi istoriati, un mosaico in oro che corre lungo il cornicione interno e una serie di arazzi posti ai lati dell’altare e provenienti niente meno che dalla Reggia di Caserta.
Campanini-Carboni è un binomio ben noto a chi, nel suo cursus honorum, ha studiato latino. L’abbinamento di questi due cognomi sta a indicare gli autori di un celeberrimo dizionario di Latino che ha accompagnato intere generazioni di studenti, pubblicato ininterrottamente dalla casa editrice torinese Paravia nel 1911: Giuseppe Campanini e Giuseppe Carboni. A realizzarlo furono appunto due dei più grandi latinisti del recente passato, incontratisi a Roma nel loro peregrinare da insegnanti nei licei di mezza Italia. Carboni era nato a Ortezzano, in provincia di Fermo, il 5 agosto del 1856. Nel 2002, in concomitanza con l’ennesima ripubblicazione del dizionario, dal titolo il “Nuovissimo Campanini-Carboni”, nel borgo marchigiano viene organizzata in suo onore la prima edizione del “Certamen”, un concorso di portata internazionale di traduzioni dal Latino per giovani studenti. A oggi, a Ortezzano si può visitare la Casa-Museo Carboni, situata non lontano dalla Biblioteca pubblica ubicata nel Palazzo Comunale, dal 2012 intitolata al grande latinista.
I buongustai lo sanno: Acqualagna significa tartufo bianco, prezioso frutto della terra che in questo borgo in provincia di Pesaro Urbino viene omaggiato dalla Fiera Nazionale del Tartufo Bianco, fra le più importanti manifestazioni di settore a livello internazionale. Una kermesse che unisce performance gastronomiche e culturali, “vip” del mondo dello spettacolo insieme e riconosciuti Maestri della cucina italiana, in grado di esaltare il Tuber Magnatum Pico in creazioni gourmand.
Un prodotto d’eccezione che ha messo in moto un’economia virtuosa, che oggi nella zona di Acqualagna conta duecentocinquanta tartufaie coltivate di tartufo nero e una decina di tartufaie sperimentali controllate di Bianco pregiato, una dozzina di punti vendita dedicati al tubero e una decina di aziende che lo trasformano e lo commercializzano in tutto il mondo.
La Fiera è una grande mostra mercato, un “salotto” animato da cooking show con chef stellati, esibizioni, sfide in cucina, spettacoli e degustazioni, percorsi, mostre, laboratori didattici e creativi per un pubblico di tutte le età, volte a offrire esperienze sensoriali, visive e olfattive oltre che gustative di un sapore unico. Che Acqualagna sia stata in grado di sviluppare un suo “mercato” non è un caso: qui si concentrano i due/terzi della produzione nazionale, destinati a soddisfare anche l’ampia richiesta straniera, desiderosa di fregiarsi di menu arricchiti del pregiato tartufo Made in Marche. Una ricchezza alimentata da ben quattro varietà, una per ogni stagione: il Tartufo Bianco (Tuber Magnatum Pico dall’ultima domenica di settembre al 31 dicembre), il Tartufo Nero Pregiato (Tuber Melanosporum Vitt, dal 1° dicembre al 15 marzo), il Tartufo Bianchetto (Tuber Borchii Vitt, dal 15 gennaio al 15 aprile), il Tartufo Nero Estivo (Tuber Aestivum Vitt, dal 1° giugno al 31 agosto e dal 1°ottobre al 31 dicembre).
Apecchio, in provincia di Pesaro Urbino, è famoso per due record: il primo, inserito nel Guinness dei Primati, è quello del Mappamondo della Pace, un globo geografico di 12,5 metri di diametro costruito interamente in legno, che grazie ad appositi meccanismi è in grado di simulare la rotazione terrestre e, aprendosi, può ospitare fino a 600 persone. Il secondo riguarda il vicolo più stretto d’Italia, nei pressi dell’ex quartiere ebraico e della chiesa della Madonna della Vita.
Apecchio ha però anche molto altro da offrire. Dentro Palazzo Ubaldini per esempio è allestito il Museo dei Fossili Minerali del Monte Nerone, con una delle raccolte di ammoniti più ricche e interessanti di tutta Italia. C’è poi il ponte medievale a schiena d’asino che attraversa il fiume Biscubio, un tempo unico accesso al castello che proteggeva il borgo, di cui oggi si può vedere solo l’imponente Torre dell’Orologio. Dal territorio, ricco e fertile, derivano i molti prodotti tipici della zona, che ad Apecchio animano una mostra mercato autunnale che ha come principale protagonista il pregiato tartufo bianco e nero.
Al km 115 della S.S.131 dell’oristanese, all’altezza di Paulilatino, si fa tappa al Parco Archeologico – Naturalistico di Santa Cristina, 14 ettari di olivi secolari e macchia mediterranea dove si scorgono il pozzo sacro di Santa Cristina, considerato uno dei più importanti monumenti del patrimonio archeologico religioso della Sardegna nuragica, un interessante villaggio nuragico con nuraghe monotorre datato al XVI sec. a.C. e un villaggio di epoca cristiana. La tecnica edilizia del tempio a pozzo risale al XII sec. a.C., e come tale è uno dei più straordinari esempi di opera architettonica di quel periodo, composto da un vestibolo (dromos), un vano scala e una camera ipogeica a “tholos”. Il tutto circoscritto da una cinta muraria perimetrale (themenos), lambita dai resti del villaggio, in cui si emergere la “capanna delle riunioni”, con un sedile in pietra dall’andamento circolare.
Di forma circolare è anche il nuraghe Santa Cristina, alto circa 6 metri e con un breve corridoio che introduce nella camera principale, anch’essa tonda, coperta da una falsa cupola (tholos) perfettamente conservata. Attorno al nuraghe si sviluppa un vasto villaggio, frutto di una serie di sovrapposizioni di epoche diverse: due le capanne principale, una lunga 14 metri, integra, l’altra priva della copertura. La visita del Parco Archeologico – Naturalistico di Paulilatino comprende il santuario cristiano che ospita la piccola chiesa campestre di Santa Cristina, voluta dai Camaldolesi in epoca medioevale, che trova nella seconda domenica di maggio e nella quarta domenica di ottobre i suoi due momenti clou: il primo vede svolgersi le celebrazioni per la festa in onore di Santa Cristina, il secondo quella in onore dell’Arcangelo Raffaele.