Fra le Confraternite di maggior peso della Diocesi di Ortezzano c’è quella del Santo Spirito, committente di uno degli edifici sacri più significativi del borgo marchigiano: la Chiesa di Sant’Antonio da Padova, definita “rurale” perché situata “fuori dalla porta del castello”. Dopo anni di abbandono, nel 1811 viene acquistata dal demanio per poi essere ceduta nel 1831 dalla Tesoreria generale di Roma ai sacerdoti Benedetto e Raffaele Carboni in vista di un restauro e della riapertura al culto.
Nel 1863 tutto ciò si è compiuto e la piccola chiesa rurale cambia destinazione d’uso e diventa chiesa cimiteriale. Qui viene sepolto il noto latinista prof. Giuseppe Carboni, che per i cultori del genere è un po’ la “voce” narrante di quanto giunto a noi dagli autori antichi. Ma la storia di questo luogo non trova ancora pace: negli ultimi anni, la Chiesa di Sant’Antonio da Padova a Ortezzano viene sconsacrata e diventa auditorium comunale, ospitando concerti e mostre.
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Chiesa Madonna del Carmine
In Largo del Carmine a Ortezzano ci sono due dei monumenti che vale la pena appuntarsi in un viaggio alla scoperta della provincia di Fermo. Si tratta della Torre Ghibellina, del XIII secolo, vessillo del borgo, e della Chiesa del Carmine, detta anche del Suffragio, in quanto proprietà dell’omonima Confraternita. Commissionata da Giulio Papetti, avvocato della curia romana, fu costruita tra il 1715 e il 1725 in un interessante mix di stile barocco e neoclassico. La Chiesa, a pianta a croce latina con copula ottagonale e campanile risalente al 1847, al suo interno mostra una decorazione moto sobria, in cui spiccano gli elementi architettonici della muratura, realizzata totalmente in mattoni rossi, elemento iconico delle Marche. Quattro piccole sagrestie con copertura a volta si trovano ai quattro angoli, collegate l’una all’altra raffigurazioni della Via Crucis Xilografica.
Abbazia di San Domenico Abate
Luoghi come l’Abbazia cistercense di San Domenico a Sora, nel frosinate, fanno la gioia di studiosi, archeologi e appassionati di arte antica. Stando ai documenti, la prima consacrazione avvenne nel 1011, ma c’è chi attesta nel 1030, ad opera dell’abate Domenico di Foligno a suggello pubblico di penitenza, conversione e devozione di due fedeli “speciali”, Pietro Rainerio, governatore di Sora e d’Arpino, e Doda sua moglie. Il 22 agosto del 1104 sarebbe invece avvenuta una riconsacrazione per mano di Papa Pasquale II, durante la quale, al titolo originario di Beata Madre di Dio e Vergine Maria, sarebbe stato aggiunto anche quello di San Domenico.
L’impronta romanica e gotica si evince dalla semplicità rigorosa della facciata, dalla pianta a croce latina con tre navate, dai tre absidi semicircolari, e dalla copertura a volta sostenuta da colonne. La presenza della cripta sotterranea è solo una piccola parte di ciò che custodisce il sottosuolo: l’abbazia di San Domenico sorge infatti sulle rovine di una villa di Marco Tullio Cicerone, il celebre oratore vissuto ai tempi di Cesare e Augusto. Oggi l’edificio è parte della Congregazione Cistercense di Casamari.
Certosa di Trisulti
Il 17 luglio 1879, quasi 7 secoli dopo la sua fondazione, la Certosa di Trisulti di Collepardo, nel frosinate, veniva riconosciuta Monumento Nazionale. A volerla fu nel 1204 Papa Innocenzo III, che quattro anni più tardi la affidava ai monaci Certosini, rimasti a prendersi cura delle anime dei fedeli di passaggio ma anche dell’immenso patrimonio d’arte accumulato nell’imponente edificio fino al 1947. Da allora, sono invece i Cistercensi che ogni giorno si dedicano con passione alla tutela del vasto complesso, composto da mura, chiesa, foresteria, giardini, farmacia e biblioteca. Solo in quest’ultima, sono conservati ben 36.000 volumi, mentre nella farmacia si possono ancora ammirare mobilio, vasi in ceramica e magnifici trompe l’oeil di ispirazione pompeiana.
Mappamondo della Pace
Apecchio, in provincia di Pesaro Urbino, è famoso per due record: il primo, inserito nel Guinness dei Primati, è quello del Mappamondo della Pace, un globo geografico di 12,5 metri di diametro costruito interamente in legno, che grazie ad appositi meccanismi è in grado di simulare la rotazione terrestre e, aprendosi, può ospitare fino a 600 persone. Il secondo riguarda il vicolo più stretto d’Italia, nei pressi dell’ex quartiere ebraico e della chiesa della Madonna della Vita.
Apecchio ha però anche molto altro da offrire. Dentro Palazzo Ubaldini per esempio è allestito il Museo dei Fossili Minerali del Monte Nerone, con una delle raccolte di ammoniti più ricche e interessanti di tutta Italia. C’è poi il ponte medievale a schiena d’asino che attraversa il fiume Biscubio, un tempo unico accesso al castello che proteggeva il borgo, di cui oggi si può vedere solo l’imponente Torre dell’Orologio. Dal territorio, ricco e fertile, derivano i molti prodotti tipici della zona, che ad Apecchio animano una mostra mercato autunnale che ha come principale protagonista il pregiato tartufo bianco e nero.
Fiera Nazionale del Tartufo Bianco di Acqualagna
I buongustai lo sanno: Acqualagna significa tartufo bianco, prezioso frutto della terra che in questo borgo in provincia di Pesaro Urbino viene omaggiato dalla Fiera Nazionale del Tartufo Bianco, fra le più importanti manifestazioni di settore a livello internazionale. Una kermesse che unisce performance gastronomiche e culturali, “vip” del mondo dello spettacolo insieme e riconosciuti Maestri della cucina italiana, in grado di esaltare il Tuber Magnatum Pico in creazioni gourmand.
Un prodotto d’eccezione che ha messo in moto un’economia virtuosa, che oggi nella zona di Acqualagna conta duecentocinquanta tartufaie coltivate di tartufo nero e una decina di tartufaie sperimentali controllate di Bianco pregiato, una dozzina di punti vendita dedicati al tubero e una decina di aziende che lo trasformano e lo commercializzano in tutto il mondo.
La Fiera è una grande mostra mercato, un “salotto” animato da cooking show con chef stellati, esibizioni, sfide in cucina, spettacoli e degustazioni, percorsi, mostre, laboratori didattici e creativi per un pubblico di tutte le età, volte a offrire esperienze sensoriali, visive e olfattive oltre che gustative di un sapore unico. Che Acqualagna sia stata in grado di sviluppare un suo “mercato” non è un caso: qui si concentrano i due/terzi della produzione nazionale, destinati a soddisfare anche l’ampia richiesta straniera, desiderosa di fregiarsi di menu arricchiti del pregiato tartufo Made in Marche. Una ricchezza alimentata da ben quattro varietà, una per ogni stagione: il Tartufo Bianco (Tuber Magnatum Pico dall’ultima domenica di settembre al 31 dicembre), il Tartufo Nero Pregiato (Tuber Melanosporum Vitt, dal 1° dicembre al 15 marzo), il Tartufo Bianchetto (Tuber Borchii Vitt, dal 15 gennaio al 15 aprile), il Tartufo Nero Estivo (Tuber Aestivum Vitt, dal 1° giugno al 31 agosto e dal 1°ottobre al 31 dicembre).
Terme Romane di Forum Traiani
Fondorgianus, nell’oristanese, è il più importante sito archeologico termale di epoca romana della Sardegna. Ad attirare qui, sulla riva del fiume Tirso, lungo la costa occidentale dell’isola, i Romani e prima ancora le antiche popolazioni sarde prenuragiche furono le acque surgive benefiche che sgorgano a 54 gradi, come ricorda il toponimo locale Caddas (calde, appunto), definite in latino aquae ypsitanae. Fu lo stesso imperatore Traiano a ordinare la costruzione dello stabilimento ai margini del centro urbano di Forum Traiani, il grande mercato di scambio tra comunità della costa e del resto dell’isola. Il forum divenne così anche luogo di benessere e di aggregazione sociale. Ciò che rimane di quell’epoca d’oro è ancora qui da ammirare: un’architettura imponente, con porticato, sale e vasche che lasciano ben immaginare lo splendore “imperiale”.
Il tepidarium, al centro dell’impianto, aveva un tempo una volta a botte ed era circondato da porticati dove si sostava e riposava tra un bagno e l’altro. Ai lati, si trovavano le vasche di captazione e miscelazione e il Ninfeo, contornato da nicchie per l’esposizione di statue e cippi votivi, spazio sacro dedicato alle aquae calidae. Il circuito dei bagni caldi (calidaria) e il frigidarium con spogliatoi e spazi per il ristoro completavano il percorso.
Tanta ricchezza attirò anche un pubblico di personaggi abbienti, come testimoniano le molte strutture che nacquero attorno: abitazioni patrizie, “strutture ricettive” per visitatori, edifici pubblici civili e per i culti funerari. Oggi, gran parte di questi tesori giacciono ancora nel sottosuolo di Fordongianus, che in tanti punti del suo reticolato urbano mostra i segni delle antiche vestigia. La caduta dell’impero romano e la successiva costruzione di chiese, conventi e luoghi di culto nel Medioevo determinò l’abbandono delle Terme Romane di Forum Traiani.
Nelle vicinanze di Fordongianus c’è da visitare anche la Casa “Aragonese”, un edifico databile tra la fine del ‘500 e gli inizi del ‘600, interessante frutto della sovrapposizione di elementi architettonici e decorativi “internazionali”, importanti nel periodo della dominazione spagnola, come per esempio il portico anteriore, che apre su tredici stanze distribuite in due unità abitative. Sul retro della Casa Aragonese si sviluppano invece l’orto-giardino, la stalla e un ambiente adibito a ricovero dei carri agricoli. La singolarità di questa struttura è dimostrata anche da un accadimento: nel 1911, in Piazza d’Armi a Roma, nell’ambito delle mostre di etnografia italiana organizzate in occasione del cinquantennio dell’Unità d’Italia, fu realizzata l’esatta riproduzione di questa abitazione, considerata un vero unicum in Sardegna.
Area Archeologica di Tharros
A Cabras, nell’oristanese, ci si va per praticare escursionismo naturalistico nel grande stagno dove stanzia una colonia di fenicotteri rosa, ma anche per ammirare uno dei rari siti archeologici affacciati sullo splendido mare della Sardegna. Fondata sulla penisola del Sinis nell’VIII secolo a.C. e abbandonata nell’XI d.C., Tharros è stata nei secoli insediamento nuragico, emporio fenicio, fortezza cartaginese, urbs romana, capoluogo bizantino e capitale arborense. Oggi è un’Area Archeologica di grande fascino, delimitata da un lato dall’istmo di Capo San Marco e dall’altra dai colli della borgata di San Giovanni di Sinis e di su Murru Mannu. Proprio sulla sommità del colle si trovano i resti più antichi, quelli del villaggio nuragico abbandonato già prima dell’arrivo dei fenici. Tracce di nuraghi sono state rinvenute anche sul promontorio di San Marco e nei pressi della Torre di San Giovanni, mentre risalgono all’età punica due necropoli e un tophet, santuario cimiteriale con resti di neonati e animali sacrificati. Se qui i corpi erano incinerati, con l’arrivo dei Cartaginesi si iniziò a praticare l’inumazione, come attestato da alcune sepolture a fossa e tombe ‘”a camera” segnalate da steli con immagini delle divinità Baal Hammon e Tanit. E proprio dalle necropoli derivano la maggior parte dei reperti, quali manufatti dei corredi funebri composti da ceramiche, gioielli, amuleti, scarabei.
Sulla collina di San Giovanni era collocato il quartiere di Tharros cosiddetto di Montiferru, dove si concentravano le botteghe di fabbri e da cui partivano le mura difensive della città fortificata. La città, prima di cadere sotto il dominio romano nel 238 a.C., mostrava numerosi edifici civili e sacri, e fra quest’ultimi c’è il “tempio delle semicolonne doriche”, in parte smantellato in età imperiale per lasciare spazio a un nuovo santuario. Del tempietto K, costituito da portico e altare con cornice a gola egizia, si notino i due blocchi con incise lettere semitiche provenienti da un precedente edificio punico, e di ciò che era un suggestivo tempio tetrastilo affacciato sul mare le uniche due colonne rimaste in piedi, frutto di un passato tentativo di ricostruzione. Il cattivo stato di conservazione di tutti questi monumenti si deve in particolare a un fattore: a un certo punto, divennero la “cava” cui attingere gli elementi e i materiali architettonici per la costruzione della Chiesa di Santa Giusta.
In età imperiale, l’urbs assunse la classica configurazione ortogonale dovuta alla centuriatio, con un articolato sistema fognario e con strade a perpendicolo lastricate e imperniate su cardo e decumano. Nel III d.C., Tharros si arricchì di un acquedotto, il castellum aquae, e di tre impianti termali a ridosso del mare, che nell’alto Medioevo furono utilizzati come sepolture bizantine. Anche le aree funerarie furono modificate secondo l’uso dell’Antica Roma: tombe “alla cappuccina”, inumazione in anfore, mausolei, sarcofagi e così via. I ricchi corredi funebri, così come quanto era rimasto a lungo a decoro dei monumenti, fu depredato prima dai saraceni e poi, dal XVII secolo, dai cercatori di tesori. Per fortuna, parte di questo ingente “bottino” è finito al British Museum di Londra, parte nei musei archeologici di Cabras e Cagliari e nell’Antiquarium arborense di Oristano. Dall’800 in poi sono stati realizzati scavi scientifici, tuttora in corso, che non hanno mai smesso di aprire nuove finestre sul passato lungo e ricco di questa città dalla mille vite e volti.
Parco Archeologico Naturalistico di Santa Cristina
Al km 115 della S.S.131 dell’oristanese, all’altezza di Paulilatino, si fa tappa al Parco Archeologico – Naturalistico di Santa Cristina, 14 ettari di olivi secolari e macchia mediterranea dove si scorgono il pozzo sacro di Santa Cristina, considerato uno dei più importanti monumenti del patrimonio archeologico religioso della Sardegna nuragica, un interessante villaggio nuragico con nuraghe monotorre datato al XVI sec. a.C. e un villaggio di epoca cristiana. La tecnica edilizia del tempio a pozzo risale al XII sec. a.C., e come tale è uno dei più straordinari esempi di opera architettonica di quel periodo, composto da un vestibolo (dromos), un vano scala e una camera ipogeica a “tholos”. Il tutto circoscritto da una cinta muraria perimetrale (themenos), lambita dai resti del villaggio, in cui si emergere la “capanna delle riunioni”, con un sedile in pietra dall’andamento circolare.
Di forma circolare è anche il nuraghe Santa Cristina, alto circa 6 metri e con un breve corridoio che introduce nella camera principale, anch’essa tonda, coperta da una falsa cupola (tholos) perfettamente conservata. Attorno al nuraghe si sviluppa un vasto villaggio, frutto di una serie di sovrapposizioni di epoche diverse: due le capanne principale, una lunga 14 metri, integra, l’altra priva della copertura. La visita del Parco Archeologico – Naturalistico di Paulilatino comprende il santuario cristiano che ospita la piccola chiesa campestre di Santa Cristina, voluta dai Camaldolesi in epoca medioevale, che trova nella seconda domenica di maggio e nella quarta domenica di ottobre i suoi due momenti clou: il primo vede svolgersi le celebrazioni per la festa in onore di Santa Cristina, il secondo quella in onore dell’Arcangelo Raffaele.
Chiesetta di Piedigrotta
A guardarla da fuori sembrerebbe più una sorta di rimessa per barche abbandonata o quasi. Invece, una volta giunti in Località Madonnella, vicino a Pizzo, provincia di Vibo Valentia, ci si trova davanti a uno spettacolo tanto inatteso quanto unico nel suo genere. La chiesetta rupestre di Piedigrotta è indissolubilmente legata a una leggenda del Seicento secondo la quale, durante una tempesta, i marinai tutti napoletani a bordo di un veliero a rischio di naufragio fecero il voto che, in caso di salvezza, una volta giunti a terra avrebbero costruito una cappella dedicata alla Madonna. Il voto venne fatto davanti a un quadro della Madonna di Piedigrotta poco prima che il veliero si inabissasse, ma miracolosamente sia i marinai che il quadro arrivarono a terra sani e salvi, sospinti dalle onde insieme alla campana di bordo datata 1632. Così, i naufraghi mantennero la promessa, scavando una piccola cappella nella roccia.
Il luogo fu da subito oggetto di culto, ma fu solo verso il 1880 che iniziò a prendere l’aspetto attuale. Ci sono voluti circa 80 anni di lavoro, prima da parte di Angelo Barone e poi del figlio Alfonso, artisti locali che dedicarono ciascuno circa 40 anni della propria esistenza a scolpire, allargare, plasmare e dipingere la roccia, dando vita a uno dei tanti gioielli d’arte popolare scaturiti dal genio creativo dei calabresi. A oggi, Piedigrotta è una delle mete più visitate dell’intera Calabria.