Palazzo Carpegna a Carpegna, in provincia di Pesaro- Urbino, nasce come seconda dimora dei “padroni” del borgo, i Conti di Carpegna, che fino al 1674 avevano abitato nel Castello un tempo posto appena sopra l’edificio. Le esigenze “moderne” e la voglia di mettere in mostra il proprio potere, oltre che la necessità di avere una dimora di più facile accesso e nel cuore del paese, spinsero i Conti a commissionare il progetto a Giovanni Antonio De’ Rossi di Roma, uno dei migliori architetti dell’epoca, cui subentrò poi Antonio Bufalini. Vent’anni dopo, nel 1696, Palazzo Carpegna apriva finalmente le porte, con la sua mole da fortezza ispirata alle ville incastellate di matrice fiorentina.
Assedi, incendi e purtroppo i due forti terremoti del 1781 e del 1786 richiesero numerosi lavori di ristrutturazione, cui contribuì anche il governo pontificio. Nel 1819 il palazzo passò alla Santa Sede, per poi tornare nel 1851 di proprietà dei Carpegna-Falconieri, divenuti nel frattempo Principi, i cui discendenti tuttora lo abitano.
Al suo interno sono oggi custoditi importanti arredamenti d’epoca, la biblioteca con un vasto archivio del periodo rinascimentale, numerosi reperti archeologici della zona e la cappella di famiglia. Un tesoro che nel 1943 si impreziosì a dismisura grazie all’arrivo di capolavori provenienti da Milano, Venezia e Roma nel tentativo di salvarli dai bombardamenti. Fu così che tele di Donatello, Veronese, Raffaello, Tiziano, Antonello da Messina, Pinturicchio, Beato Angelico, Bramante, Piero della Francesca, Tintoretto, Caravaggio, oltre ai reperti di Tarquinia, trovarono riparo in una stanza segreta del Palazzo, dando vita a una concentrazione di opere d’arte dal valore inestimabile.
Il 17 luglio 1879, quasi 7 secoli dopo la sua fondazione, la Certosa di Trisulti di Collepardo, nel frosinate, veniva riconosciuta Monumento Nazionale. A volerla fu nel 1204 Papa Innocenzo III, che quattro anni più tardi la affidava ai monaci Certosini, rimasti a prendersi cura delle anime dei fedeli di passaggio ma anche dell’immenso patrimonio d’arte accumulato nell’imponente edificio fino al 1947. Da allora, sono invece i Cistercensi che ogni giorno si dedicano con passione alla tutela del vasto complesso, composto da mura, chiesa, foresteria, giardini, farmacia e biblioteca. Solo in quest’ultima, sono conservati ben 36.000 volumi, mentre nella farmacia si possono ancora ammirare mobilio, vasi in ceramica e magnifici trompe l’oeil di ispirazione pompeiana.
Calitri è un antico borgo dell’ avellinese, in Irpinia, che deve la sua fama alla lunga e ricca tradizione delle ceramiche dipinte. A testimoniarlo sono le numerose botteghe presenti in zona e nell’intera Alta Valle dell’Ofanto, da quelle a conduzione familiare fino a veri e propri colossi per la produzione di laterizi e vasi in terracotta, e ovviamente il Museo della Ceramica situato nel Borgo Castello di Calitri.
Inaugurato nel 2008, il museo raccoglie oggetti databili dalla protostoria alle mezze maioliche dell’epoca medievale, dalle maioliche rinascimentali fino a quelle del XX secolo. Una collezione preziosa che assomma reperti provenienti dai numerosi scavi archeologici effettuati in zona, a donazioni e prestiti fatti da cittadini privati e associazioni culturali.
L’Irpinia e la ceramica. Una storia plurisecolare che affonda le radici nel passato, e che in ogni epoca ha visto compiersi evoluzioni, di stile, tecnica, gusto. A raccontare tutta questa ricchezza sono gli oltre 250 pezzi della collezione del Museo Civico e della Ceramica di Ariano Irpino, situato all’interno di Palazzo Forte.
Si va da ceramiche del IX secolo a maioliche dal Trecento in poi fino a opere contemporanee: in questo ampio excursus, brocche, piatti, fiasche e boccali dai colori solari illustrano gli usi, i costumi, le abitudini e i valori di un popolo e del suo territorio nell’arco di oltre dieci secoli.
Momento clou della ceramica arianese fu il Settecento, periodo in cui erano attestate ben 11 fornaci e circa 29 artigiani con diverse mansioni: faenzari, cretai, rovagnari e stovigliai, artefici di alcuni dei pezzi più notevoli conservati nel Museo Civico e della Ceramica di Ariano Irpino. Fra questi, lucerne antropomorfe e zoomorfe, brocche e fiasche a segreto, estrose saliere, scaldamani a foggia di scarpetta, grandi piatti e piatti devozionali e così via.
Basterebbe il suggestivo panorama sui Monti Sibillini per attirare i turisti a Sarnano, nell’entroterra maceratese, ma in questo borgo con più di mille anni di storia si trova anche molto altro. Sulla Piazza Alta, cuore del nucleo duecentesco, si affacciano il bel Palazzo dei Priori, il Palazzo del Podestà, la Chiesa di Santa Maria di Piazza, ricolma di opere d’arte, e il Palazzo del Popolo, nella cui sala del Gran Consiglio è stato ricavato il Teatro della Vittoria, delizioso gioiello architettonico di metà Ottocento. Qualche passo ancora e ci si imbatte nella Pinacoteca Civica, nella Biblioteca Francescana, nel Museo delle Armi Antiche e Moderne, del Martello e in quello dell’avifauna. Lasciato il centro storico, ci si dedica all’escursionismo, per esempio lungo la Valle del Terro, dove sorgono i resti dell’Eremo di Soffiano, risalente al 1101. Alla stessa epoca risale anche l’Abbazia di San Biagio, in cui la severità dello stile romanico si accompagna alla ricchezza di un ciclo di affreschi del XV e XVI secolo.
Corinaldo e la sua Santa. Il borgo marchigiano in provincia di Ancona si distingue per la bellezza del centro storico medievale ancora intatto, racchiuso com’è nella sua possente cinta muraria in mattoni rossi, e per aver dato i natali a Maria Goretti, canonizzata nel 1950 da Papa Pio XII. A memoria del suo omicidio all’età di soli 12 anni, in seguito a un tentativo di stupro, nel borgo si visitano oggi la casa natale in contrada Pregiagna, il Santuario dell’Incancellata dove andava a pregare da bambina, e soprattutto il Santuario di Nostra Signora delle Grazie, dedicato poi nel ‘900 anche a Santa Maria Goretti. Realizzata nel Settecento su disegno dell’architetto corinaldese Giuseppe Carbonari Geminiani, in prossimità all’Ex monastero dei Padri eremitani dell’ordine di Sant’Agostino, la chiesa conserva un’urna in argento contenente l’osso del braccio della Santa, con il quale secondo la tradizione la Martire tentò di difendersi dal suo aggressore, Alessandro Serenelli. La chiesa merita una sosta anche perché al suo interno sono custodite numerose opere d’arte tra le quali spiccano l’Annunciazione secentesca (copia del Barocci), un crocefisso ligneo del ‘400 e un prezioso organo del 1767 opera del celebre organaro veneto Gaetano Callido. I pellegrini comprendono in questo itinerario spirituale anche la Chiesa di San Francesco, situata appena fuori le mura, per via della fonte battesimale dove fu battezzata la Goretti.
I 535 metri di altitudine della collina detta Monte Cischiano su cui sorge Arcevia, nell’anconetano, la rendono fresca anche nel periodo estivo, come si conviene a questa zona pre Appennino Umbro-Marchigiano. I tesori emersi dal suo sottosuolo raccontano di un territorio abitato sin da epoche remote: il sito in località Ponte di Petra risale addirittura a 20.000 anni a.C. Le invasioni celtiche dei Galli Senoni, i domini romano, bizantino e longobardo hanno fatto il resto, arricchendo il territorio di importanti lasciti culturali e architettonici, cui si aggiunge una leggenda che racconta la fondazione del borgo da parte dei franchi al seguito di Carlo Magno. Ne è traccia l’intitolazione della Chiesa Collegiata a San Medardo, anticamente molto venerato oltralpe. Arcevia, proprio in quanto zona di confine fra longobardi, bizantini e franchi, fu più volte ingrandita e potenziata, soprattutto nel periodo del dominio degli Sforza, con l’aggiunta di cinta muraria, porte e rivellini, diventando inespugnabile e perciò ribattezzata Roccacontrada Libero Comune. Nel 1500 avvenne un ulteriore cambio di scena, venendo annessa allo Stato Pontificio.
La sua peculiarità è oggi quella di essere un Comune diviso in 18 frazioni con 9 castelli medievali, per lo più ben conservati e di gran fascino, collegati dal cosiddetto Itinerario dei 9 Castelli di Arcevia”. Nel centro storico del borgo si visitano anche il Museo Archeologico Statale, il Teatro Misa, gioiello della metà dell’800, e i Giardini Giacomo Leopardi, da cui si gode un bellissimo e ampio panorama sulle colline circostanti.
L’8 settembre 2018, la Cattedrale di Gerace, detta anche Basilica di Santa Maria Assunta, è stata nominata Basilica Minore, ma già prima era evidente all’occhio la sua importanza. Architettonicamente, per esempio, è fra le più imponenti e belle costruzioni di epoca normanna della Calabria – di cui è considerata un autentico modello -, nonché la più ampia chiesa romanica dell’Italia Meridionale, tanto da essere stata dichiarata “bene di interesse nazionale”. Lo stile composito assomma elementi decorativi e strutturali di varie epoche, in particolare bizantino-romanico-normanne. Iniziata nel 1045 su una preesistente struttura sacra dedicata all’Ajia Kiriaki (Santa Ciriaca), fu consacrata nel 1222. Fra le curiosità che si possono notare c’è quella delle due absidi poste l’una accanto all’altra, simmetria dovuta a due eventi sismici che costrinsero gli ingegneri a rivederne l’impianto. Sulla pianta a croce latina si innestano tre grandi navate separate da due file di dieci colonne, scanalate o lisce, tutte diverse fra loro perché recuperate da ville antiche situate lungo la costa. Stessa origine hanno anche le 26 colonne che scandiscono lo spazio della cripta di epoca normanna, a croce greca. La discesa alla cripta consente di scoprire anche altri due gioielli: la Cappella della Madonna dell’Itria, con uno splendido pavimento in maioliche geracesi, e la Cappella di San Giuseppe, che ospita il Museo Diocesano del Tesoro della Cattedrale.
Insieme alla Cattedrale, o Basilica di Santa Maria Assunta, la Chiesa di San Francesco d’Assisi di Gerace è stata dichiarata “bene architettonico” di interesse nazionale e rappresenta un importante edificio in stile gotico non solo del reggino, ma della Calabria tutta. Situata sulla “piazza delle tre chiese” del borgo medioevale, dietro a una facciata piuttosto spoglia nasconde interni ricchi di opere di grande valore. A cominciare dall’altare maggiore seicentesco, in marmi policromi intarsiati, uno dei migliori documenti del Barocco in Calabria. Sempre in marmi policromi è anche l’arco trionfale, opera barocca del frate Bonaventura Perna, nativo del luogo. Si devono invece a ritrovamenti più recenti una serie di antichissimi sarcofagi, disposti lungo le navate laterali.
Unica per decorazioni, mobilio, quadreria e opere in generale, la “dimora-museo” del Castello di Lanciano a Castelraimondo, in provincia di Macerata, è una di quelle tappe che meritano una deviazione. Lunga e articolata la sua storia di “villa suburbana” e “casino delle delizie” che già a suo tempo aveva ammaliato Isabella d’Este Gonzaga, nota esteta e committente di numerosi capolavori rinascimentali: a volerne la costruzione fu nel 1488 Giovanna Malatesta da Varano, nel luogo medesimo di una precedente fortificazione medievale, poi riprogettata nella seconda metà del ‘700 dal grande architetto camerte Giovanni Antinori. Al suo interno ospita oggi anche il Museo Maria Sofia Giustiniani Bandini, a sua volta parte della Rete dei Musei Civici e Diocesani del territorio camerte, che comprende il Museo di Visso, il Museo diocesano “Giacomo Boccanera” di Camerino e la Pinacoteca e Museo Civici di Camerino, dal dicembre 1997 allestiti nel complesso conventuale di S. Domenico.
Dei quattro musei, quello dedicato alla Bandini è il più vasto e caratteristico, giovando anche della bellezza del prestigioso “contenitore”, il Castello di Lanciano appunto, immerso tutt’oggi in un parco secolare, attraversato da corsi d’acqua derivati dal Potenza.