L’espressione “museo diffuso” rende perfettamente l’idea di ciò che è l’Ecomuseo del Paesaggio della Valle del Raganello di Civita, nel cosentino. Il quartier generale si trova nell’antico Palazzo Castellano di proprietà dell’Ente Parco Nazionale del Pollino, ma è tutt’attorno al borgo che si sviluppano gli itinerari di conoscenza del territorio, oggetto primario delle varie attività proposte. L’Ecomuseo è a tutti gli effetti un’istituzione che assicura, in forma permanente e con la partecipazione della popolazione, la conservazione e la valorizzazione dei beni naturali e culturali, quest’ultimi intesi come materiali e immateriali, qui radicati da secoli, mirando a un modello di sviluppo sostenibile.
Il Museo prevede un laboratorio di idee per la comunità locale, un centro visite e informazione per l’organizzazione delle escursioni in zona, una biblioteca scientifica e una sala espositiva per approfondire i singoli argomenti, fra cui figura anche la cultura arberesh e la sua presenza sul territorio.
Prima seminario, poi caserma dei carabinieri, scuola elementare e infine sede municipale. Tante le vesti indossate dall’edificio cinquecentesco nel centro storico di Gerace che dal 2010 accoglie il Museo Civico. Nelle cinque sale, decine di reperti archeologici recuperarti nel territorio dell’antica locride illustrano un excursus temporale di oltre duemila anni, che conduce dall’Età del Ferro, a quella della Pietra, del Rame, del Bronzo fino all’Età della Ceramica e da qui al Medioevo, periodo fra i più floridi per questo borgo del reggino, inserito nella zona tutelata dal Parco Nazionale dell’Aspromonte.
Il Museo funge anche da Centro Informativo e da punto di partenza di un itinerario che tocca le cinque chiese più importanti di Gerace: San Francesco, Santa Caterina d’Alessandria, L’Annunziatella, San Martino e Santa Maria Del Mastro.
Ripercorrere la storia lunga più di 1500 anni del Castello di Caccuri significa attingere dagli annali di numerose famiglia nobili di mezza Italia. Le prime pietre le misero i Bizantini nel VI secolo a difesa della Valle del Neto, ma furono le più importanti famiglie di feudatari della zona a dargli importanza, strategica e architettonica. I primi furono i De Riso, che cedettero la proprietà ai Ruffo conti di Montalto. Fu poi il matrimonio di Polissena Ruffo con Francesco Sforza a proiettare questo piccolo borgo nel crotonese sulla scena nazionale, e anche quando gli Sforza persero il diritto di feudo su Caccuri, la casata locale dei Simonetta continuò la reggenza in nome di Francesco.
Nella seconda metà del Seicento fu la volta dei Cimino, dei duchi Cavalcanti e dei baroni Barracco, ai quali si deve la splendida torre sul rivellino del castello, del 1882. Da allora, la Torre Mastrigli – dal nome dell’architetto Adolfo Mastrigli che la progettò – è simbolo del comune di Caccuri, sia sullo stemma sia per via del suo profilo elegante riconoscibile da lontano. Attualmente è in parte proprietà privata e adibito a B&B di grande charme, in parte del Comune e quindi aperto al pubblico per le visite, che conducono anche nella bellissima cappella feudale con quadri di scuola napoletana.
Un restauro esemplare quello che ha avuto come oggetto Palazzo Giannettasio, nel centro storico di Oriolo. I muri esterni in pietra a vista e i saloni che dal 2008 ospitano il Museo della civiltà contadina hanno recuperato tutta la loro allure gentilizia, quel fascino settecentesco che si respira ancora nel salone delle feste, la cui soffittatura affrescata, con al centro il dipinto di San Giorgio che uccide il drago, è lì per essere ammirata.
Nelle quattro sale adibite a Museo sono esposti oggetti d’uso quotidiano in legno e terracotta e persino una cucina del Settecento napoletano, a memoria dell’origine partenopea degli antichi proprietari del palazzo. La visita regala così uno spaccato di autentica vita rurale, come si svolgeva a Oriolo e più in generale in Calabria circa trecento anni fa.
Il “tartufo” di cioccolato sta a Pizzo Calabro come il tiramisù a Treviso Già, perché questo borgo in provincia di Vibo Valentia arroccato su un promontorio di tufo a picco sul mare vanta la “paternità” di questo dessert realizzato con una ricetta segreta ma con un numero infinito di tentativi di imitazione. Da qui i suoi due epiteti più celebri, quello di “città del gelato” e di “città del tartufo”.
Di recente però, se ne è aggiunto un altro, “città dell’amore”, grazie all’iniziativa di un privato, Massimo Pacifico, presidente dell’Associazione Carta Canta, che ha ribattezzato la scalinata in Corso San Francesco con il nome di “Vicolo del Bacio”. Il contesto è romantico di per sé, tanto da invitare chiunque a fermarsi per ammirare l’atmosfera sospesa del borgo. Il resto lo si lascia all’iniziativa dei visitatori, tant’è che questo è diventato uno degli “angoli dei selfie” più gettonato del posto. Poco distante da qui, c’è anche il Vicolo degli Abbracci, ma non c’è dubbio che, oltre a queste iniziative personali, Pizzo offre molti scorsi da immortalare con una foto: per esempio i vicoli attorno al Castello del ‘400, voluto da Ferdinando I d’Aragona e luogo della fucilazione di Giacchino Murat, e la famosa Chiesetta di Piedigrotta, su una spiaggia a circa 1 km dal centro.
Il borgo di Rocca Imperiale è il suo Castello e viceversa. Il nome e l’origine stessa del paese derivano dalla presenza della roccaforte, costruita fra il 1225 e il 1240 per volere dell’Imperatore Federico II di Svevia. Della struttura originaria rimangono pochi ma significativi dettagli, come il portale d’ingresso, una torre e una finestra ogivale, mentre le dimensioni e l’aspetto attuale si rifanno a quanto richiesto nel 1487 da Alfonso II d’Aragona duca di Calabria. A questa fase risalgono in particolare il maschio poligonale, le numerose torri e il cassero, che permisero a gran parte della popolazione di Rocca Imperiale di salvarsi quando nel 1644 quattromila soldati turchi misero sotto assedio il borgo. Ciò avvenne anche grazie alle “dotazioni di bordo” della fortezza, ideate per resistere a lunghi periodi di isolamento, fra cui ampi depositi di olio e grano e ben cinque cisterne d’acqua.
Visitare oggi il castello, dalle sale di rappresentanza alle cucine fino ai sotterranei, così come perdersi fra la Piazza d’Armi e i camminamenti che collegano la Torre Polveriera e la Torre di Federico, significa ripercorrere sette secoli di storia, in un continuo rimando a fatti e rivoluzioni che la storia della Calabria hanno contribuito a mutarla. Da qui fino al Golfo di Taranto, sulla linea dell’orizzonte che si scorge dalla Terrazza Panoramica della rocca.
Otto musei in uno. Questa è la sintesi di ciò che si trova all’interno dell’Antico Monastero Comunale di Rocca Imperiale, che raduna sotto lo stesso tetto otto diverse esposizioni museali. L’edificio è già di per sé motivo di visita: eretto nel 1562 dai Frati Minori Francescani, ha una struttura piuttosto complessa, che si articola in chiostro con cisterna, porticato, celle, chiesa.
Degli otto temi sviluppati ciascuno con un allestimento specifico, il Museo delle Cere rappresenta forse il più inaspettato in un contesto come quello di un borgo medievale. La rassegna di personaggi storici e dello spettacolo è quanto mai varia: Madre Teresa di Calcutta, De Gasperi, Mussolini, Che Guevara, Gianni Agnelli, Totò, Alberto Sordi, Giuseppe Verdi, Pablo Picasso, Charlie Chaplin, Federico II di Svevia e persino un paio di scene corali come l’ultima cena di Gesù con i dodici apostoli e la Sacra Famiglia. Ciascuna figura umana ha grandezza naturale, capelli veri e occhi di vetro, il che rende tutto molto verosimile.
Nel monastero si trovano poi anche il Museo Scientifico del Mare, il Museo Mineralogico, il Museo del Sapone, il Museo Mitologico, il Museo Medievale, il Museo Araldico e il Museo Misto, che altri non è che una raccolta di presepi, documenti e oggetti di ambito religioso.
Chianalea, frazione di Scilla, 25 km da Reggio di Calabria. Basterebbe il tratto di splendido mare su cui affaccia questo borgo di appena 350 abitanti per rendere la destinazione imperdibile. Ma poi, si distoglie lo sguardo dal blu dell’acqua e si punta verso il promontorio, verde di macchia mediterranea, per cogliere l’insieme variopinto delle casette di pescatori costruite direttamente sugli scogli e la magia si compie. Ci si inerpica fra i vicoli, che visti dall’alto sembrano quasi dei canali, e la mente va alla laguna veneta. Da qui, l’appellativo di “Venezia del Sud” e l’inserimento nel listing dei “Borghi più belli d’Italia”.
Fra il 1400 e il 1000 a.C., vicino a Ittireddu, nel sassarese, veniva eretto il Nuraghe Funtana, di tipo complesso, costruito in blocchi irregolari di trachite, composto da una torre centrale e da due torri a chiudere un cortile centrale. Il sito archeologico trova però la sua rilevanza e peculiarità nei molti reperti rinvenuti durante le campagne di scavo, l’ultima delle quali risalente al 2012: materiali ceramici e bronzei, ma soprattutto un vero e proprio “tesoretto” composto da una serie di lingotti di rame di tipo egeo custoditi all’interno di un vaso. Un ritrovamento eccezionale per il valore in sé delle materie prime ma anche per il significato di quanto riportato alla luce: tali lingotti erano infatti la moneta di scambio di importanti traffici commerciali ma anche il risultato di un’intensa attività metallurgica cui era dedito questo villaggio. Tesoretto e reperti sono oggi il vanto del Museo Civico di Ittireddu.
Nell’immaginario epico e letterario, da più di duemila anni Scilla è un mostro marino generato dalla gelosia della maga Circe. Secondo la mitologia greca, sarebbe stata lei a trasformare la ninfa Scilla in una terribile creatura con sei teste di cane e lunghe code di serpente, pronta a catturare tutte le imbarcazioni che transitavano davanti al promontorio dove oggi sorge l’omonimo borgo. Anzi, per la precisione, la “tana” del mostro sarebbe stata l’area del Castello Ruffo di Calabria, uno dei luoghi che oggi meglio identificano quel particolare tratto di mare che è lo Stretto di Messina.
Dal V secolo a.C. in poi, si può dire che qui siano transitati tutti i dominatori che la Calabria abbia mai conosciuto, nessuno escluso, fino ad arrivare al 1578, anno in cui Paolo Ruffo decise di acquistarlo e di trasformare in una residenza sontuosa quello che era già un palazzo baronale di tutto rispetto.
Dopo le devastazioni dei terremoti del 1783 e del 1908, il castello ha subito vari restauri e adattamenti, ospitando uffici pubblici durante il periodo fascista, e persino un ostello della gioventù, fino a essere di recente adibito a Centro regionale per il recupero dei centri storici calabresi.
Dal 1913, una parte dell’edificio ospita il faro della Marina Militare.