Bronzi di Riace

16 Agosto 1972. A 200 metri dalla costa di Riace Marina, lido fra i più selvaggi del reggino, ad appena 8 metri di profondità, un appassionato subacqueo rinviene sul fondale di sabbia due statue bronzee in perfetto stato di conservazione, subito nominate Bronzi di Riace. Molte le ipotesi fatte attorno a quelle che sono ancora oggi considerate tra le testimonianze più significative dell’arte greca classica: con ogni probabilità risalenti alla metà del V secolo a.C. e realizzate dallo stesso artista, si pensa che siano state gettate in mare durante una burrasca per alleggerire la nave che li trasportava o che l’imbarcazione stessa fosse affondata con le statue.

Alte 1,98 e 1,97 metri e pesanti 160 kg, raffigurano due uomini nudi, un oplita (Bronzo A) e un re guerriero (Bronzo B), con barba e capelli ricci, il braccio sinistro piegato, e il destro disteso lungo il fianco. Ambedue indossavano un elmo, impugnavano una lancia o una spada nella mano destra e reggevano uno scudo con il braccio sinistro, elementi smontati al momento dell’imbarco per permettere di adagiare sulla schiena le statue e facilitarne il trasporto.
Eseguite ad Argo, nel Peloponneso, circa 2500 anni fa, sono state restaurate per la prima volta negli anni 1975-80 a Firenze, e sono oggi esposte al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, di cui sono diventate simbolo, così come della Calabria stessa.

Villagio Nuragico Tiscali

Barbagia, Valle di Lanitto, Comune di Oliena. Bisogna arrivare fin qui, nel cuore più profondo della Sardegna e del nuorese per imbattersi in un luogo davvero singolare. All’interno di una montagna, si svela il villaggio ipogeo di Tiscali, un insediamento nuragico unico per topografia e architettura, generato dallo sprofondamento della roccia che ha causato a sua volta la formazione di una dolina. Scoperto a inizio XX secolo, Tiscali è la più importante testimonianza delle civitates Barbariae che popolavano il centro-est dell’Isola in età repubblicana, ultimo baluardo delle genti tardo-nuragiche prima dell’invasione romana.
Alto appena 500 metri, il monte Tiscali fa da spartiacque a due realtà assai diverse fra loro, i Supramonte di Oliena e di Dorgali: a ovest, l’aspra e selvaggia valle di Lanitto, a est, quella dolce e fertile di Oddoene, dove scorre il rio Flumineddu, che ha ‘scavato’ la gola di Gorropu. La dolina dove oggi si trova il villaggio era in origine una grotta carsica, poi, dopo il crollo, fu ‘colonizzata’ da lecci, ginepri, frassini, olivastri, lentischi e fichi. Un sentiero corre lungo il bordo della dolina, sull’orlo di un precipizio di 200 metri, dove si possono intuire le varie stratificazioni. L’insediamento è composto da due agglomerati, databili prima in età nuragica (XV-VIII secolo a.C.), poi ristrutturati in epoca romana e abitati sino all’alto Medioevo. L’esplorazione del sito permette di ammirare da vicino strutture abitative datate a oltre duemila anni fa: fra queste, quaranta capanne tonde e ovali, con pareti sottili e copertura a tholos (o frasche), e circa trenta abitazioni più piccole, quadrate o rettangolari.

Il Paese delle dodici torri

La Torre di Vinciarello, detta anche di “sopraguardia” o “cavallara”, è l’unica superstite delle dodici che un tempo svettavano in questo piccolo borgo affacciato sulla costa ionica, parte del comune di Guardavalle, in provincia di Catanzaro. Noto non a caso come “Il Paese delle dodici torri”, Vinciarello è una sorta di San Gimignano di Calabria, che al posto dei de’ Medici o dei Granduchi fino al 1799 vide avvicendarsi normanni, aragonesi e svevi, costringendo la popolazione locale a creare un sistema difensivo importante, che prevedeva appunto torri di avvistamento nei punti più alti dell’abitato.

Venendo nel dettaglio alla torre di Vinciarello, essa fu costruita nel 1485 dal feudatario Vincio Spedalieri con lo scopo di difesa del litorale contro le incursioni dei Turchi, assumendo più propriamente la funzione di residenza fortificata ma riuscendo poi ad adattarsi nel tempo a nuovi usi e necessità. Se inizialmente al piano terra c’era la scuderia e al primo piano gli alloggi dei soldati, nel ‘700 fu trasformata in un frantoio a servizio delle terre del feudo, fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui è adibita a dimora privata, ricca di quel fascino che solo la storia sa dare.

Ceramiche di Squillace

Il Museo di Capodimonte di Napoli, il Museo Civico di Rovereto, il Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, il Victoria and Albert Museum di Londra e il Metropolitan di New York hanno un minimo comun denominatore: reperti di varie epoche realizzati in ceramica graffita di Squillace, lavorazione così particolare da aver ricevuto il riconoscimento di Ceramica Italiana DOC. Un “veicolo” sui generis che ha fatto sì che la fama di questa cittadina a circa 25 km dal capoluogo Catanzaro viaggiasse letteralmente nel mondo, oggi come ieri, risalendo indietro nei secoli.

Le prime testimonianze di quest’antica arte sono riferite al 1654, data riportata sul fondo di un grande piatto da parata, ingobbiato, con intrecci e figurazioni in giallo oro, graffiti sul fondo rosso scuro del biscotto. Un lavoro di ispirazione araba con tanto di marchio sul retro che non lascia dubbi, “Sqllci”, e che evidenzia una chiara continuità con la similare ceramica bizantina.

Nata probabilmente in Magna Grecia, era una tecnica già ampiamente conosciuta nel mondo romano, che continuò a essere praticata a Bisanzio anche dopo la decadenza di Roma e si diffuse poi in tutta l’Italia meridionale e soprattutto in Calabria grazie all’espansione politica bizantina, iniziata nel VI secolo e consolidata nel IX secolo anche sul piano religioso-culturale grazie alla diffusione del monachesimo basiliano. Risalgono invece all’inizio dell’XI secolo alcuni documenti riportanti i nomi di figuli locali, artisti quali un certo “Giovanni” detto “Cannata” e Sergio detto “Scutelli”, entrambi nativi di Squillace e presenti all’assedio di Capua del 1098.

Secoli d’oro della produzione locale furono in particolare il XVI e il XVII, di cui rimangono anfore, grandi piatta di parata, bottiglie, idrie farmaceutiche e crateri tutti di notevolissima fattura e attualmente conservati negli importanti musei sopra citati, da Napoli a New York. Per cogliere la bellezza di certi manufatti e la ragione di una fama così diffusa e duratura basta fare due passi lungo il Viale fuori le Porte, nel centro storico di Squillace, dove è un susseguirsi di botteghe artigiane che con orgoglio tramandano questa raffinata cultura atavica.

Castello Normanno di Squillace

Il Castello di Squillace è un affascinante maniero normanno costruito nel 1044, ma a fargli guadagnare fama internazionale non è stata la sua architettura non comune, dovuta a un continuo sovrapporsi di stili e rimaneggiamenti, bensì il ritrovamento di due scheletri agli inizi degli anni Novanta. Un evento che ha generato la leggenda del “mistero dei due amanti”, anche se non è sicuro si tratti proprio di amanti. C’è chi dice che fossero due fratelli, e chi due soldati, uno svevo e uno angioino, morti durante una delle numerose battaglie avvenute fra queste mura. Ciò che rimane una certezza è la piacevolezza di una visita che in pochi passi transita dall’epoca gloriosa di Federico II di Svevia, ai lasciti degli Angioini fino all’ultima dominazione dei Borgia, il cui stemma campeggia ancora sul portale a bugnato d’ingresso. Il tutto in un contesto quasi mitologico, che fa risalire le origini di Squillace a Odisseo, Ulisse, che qui si fermò durante il suo interminabile viaggio verso Itaca.

Convento Francescano di Santa Maria degli Angeli

Borgo degli Angeli, Paese degli Artisti e degli Stranieri, Paese delle Chiese. Le molte definizioni con cui è noto Badolato raccontano un po’ del passato ma anche del presente di questo crogiuolo di culture, a circa 30 km dalla costa ionica, nel catanzarese, che verso l’entroterra guarda alle Serre Calabresi. Limitandoci all’ultima, l’origine dell’epiteto deriva dal gran numero di edifici sacri che affollano il piccolo centro storico, tredici in tutto, frutto di una sovrapposizione di ordini religiosi e confraternite che nei secoli scorsi hanno visto transitare da qui monaci Basiliani, Francescani e Domenicani. Fra quelli più interessanti, su una collinetta di fronte al borgo c’è il Convento Francescano di Santa Maria degli Angeli, il cui impianto principale risale al 1606. Un rifugio dello spirito che è anche un perfetto belvedere sulla Riviera degli Angeli.

Museo della Seta

San Floro oggi come ieri. Un breve inciso che riassume più di mezzo millennio di storia della Calabria, in particolare della città di Catanzaro e quindi di questo piccolo borgo abitato da 600 anime. Dal ‘300 al ‘700, tale provincia era infatti il cuore di una fiorente industria, quella della produzione di seta e filati che da questo angolo del Sud Italia viaggiava in tutta Europa.

Nonostante il passare del tempo e delle mode, tale cultura non ha mai abbandonato le tradizioni locali, come testimonia il costante uso di costumi in pura seta, ma soprattutto il recente recupero di 5 ettari di terreno e di circa tremila gelsi gestiti dalla Cooperativa Nido di Seta, che hanno riavviato l’industria e l’interesse per un pezzo di storia locale meritevole di essere conosciuta e rivalutata. La stessa mission ce l’ha il Museo della Seta allestito dentro il quattrocentesco Castello Caracciolo di San Floro, il cui percorso ricalca l’intera filiera produttiva, dagli antichi telai alle tinture naturali ricavate da papaveri, radici di robbia, margherite di campo, iperico, malli di noce e dalla celbre cipolla rossa di Tropea, icona dei prodotti calabresi. Bellissima anche la collezione di abiti d’epoca, damaschi catanzaresi, paramenti sacri damascati, di archeologia industriale e di seta grezza contemporanea, distinta per lavorazione all’uncinetto e tessuti al telaio antico a quattro licci.

La Dieta Mediterranea – Museo Vivente della Dieta Mediterranea

Quello della Dieta Mediterranea è un “modello culinario” tramandato da secoli, che nel Novecento ha vissuto prima un generale declino – dovuto al boom economico degli Anni Sessanta che spinse a mettere da parte le tradizioni, ritenute troppo povere e poco attraenti, a favore di una maggiore “esterofilia”, in particolare verso le mode Made in Usa – e poi un deciso revival, fino a tramutarsi in uno stile di vita da seguire come virtuoso e ideale per una salute migliore, personale ma anche sociale. La sua importanza e valenza scientifica è cresciuta così tanto che dal 2010 la Dieta Mediterranea è annoverata nel listing ufficiale del “Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità” dell’Unesco, facendo parte di quel genere di attività, abilità, strumenti, conoscenze e aspetti immateriali della cultura che identificano un territorio specifico.

Fra gli Intangible Cultural Heritage è anche uno dei più diffusi a livello mondiale, essendo presente in ogni angolo del Mar Mediterraneo. Su di ecco affacciano infatti Italia, Marocco, Grecia, Spagna, Cipro, Croazia, e Portogallo, accomunati dalla tradizione di una cucina sana, stagionale, basata sul rispetto per il territorio e della biodiversità, la conservazione e lo sviluppo delle attività e dei mestieri collegati alla pesca e all’agricoltura che da sempre caratterizzano il “Mare Nostrum”.

C’è poi chi ha saputo cogliere anche a livello locale l’importanza della valorizzazione della Dieta Mediterranea per farne un motore della propria economia: nel 2012, la Regione Campania ha infatti varato una legge che stimola e supporta tale tradizione in quanto modello di sviluppo alimentare, culturale, sociale e dei costumi, tanto da creare un luogo specifico deputato alla sua valorizzazione, il Museo Vivente della Dieta Mediterranea di Pioppi, vicino Pollica, in Provincia di Salerno. Ricavato al primo piano di Palazzo Vinciprova, insieme al Museo Vivo del Mare è gestito da Legambiente e fa parte dell’Ecomuseo della Dieta Mediterranea. Fra le attività didattiche proposte ci sono anche corsi di cucina cilentana e visite guidate a sentieri, orti e mulini della zona.

Pinacoteca “G. De Nittis”

Da Barletta ai musei più importanti del mondo. È il percorso artistico fatto da Giuseppe De Nittis, pittore impressionista nato qui nel 1846, partito dalla provincia di Bari alla volta della Francia, dove ebbe modo di conoscere artisti del calibro di Degas, Manet, Morisot, Caillebotte, fino a terminare i suoi giorni nel 1884 a Saint-Germain-en-Laye, nell’Ile de France. La sua città natale non poteva quindi che omaggiare uno dei suoi cittadini più illustri con un luogo dedicato alla sua memoria, la Pinacoteca “Giuseppe De Nittis” , ospitata in uno degli edifici più belli del centro storico, Palazzo della Marra, splendido esempio di architettura del ‘500, residenza prima della nobile casata degli Orsini, e poi fino al 1743 dei Della Marra.

Inaugurata nel 2006 dopo un lungo restauro dell’edificio, la Pinacoteca “Giuseppe De Nittis” accoglie oggi 146 dipinti, 65 disegni, libri e un epistolario, collezione donata alla città di Barletta da Léontine Gruvelle, moglie dell’artista. Il percorso tematico è organizzato su due livelli e si compone di ampie sezioni: il tema del “Paesaggio”, le grandi tematiche delle “Corse” e “Vita mondana”, la novità del “Giapponesismo”, l’intimità degli “Affetti”. L’esposizione comprende anche i cosiddetti “Quadri incompleti” e la “Collezione grafica”, acqueforti, acquetinte e punte secche. Oltre alla parte permanente, la Pinacoteca offre un ricco calendario di mostre temporanee, che permette di ammirare a rotazione anche le molte opere presenti nei depositi.

Cattedrale di Santa Maria Immacolata

Nel complesso, la costruzione della Cattedrale di Santa Maria Immacolata di Alghero ha richiesto più di tre secoli, dal 1530 circa al 1862, e ad oggi è uno degli edifici sacri più grandi e imponenti di tutta la Sardegna. Già queste premesse fanno capire che l’edificio è meritevole di grande attenzione. In più, la guglia piramidale del campanile, con il suo mosaico di maioliche colorate e splendenti, è uno degli elementi distintivi del centro storico di Alghero. Alto 20 metri e costruito in pietra arenaria, ha una caratteristica struttura ottagonale finestrata, che richiama subito i canoni dello stile gotico catalano del XVI secolo. Una volta varcata la soglia, oltre il bellissimo portale gigliato, appaiono tre navate separate da imponenti pilastri e colonne in trachite, e cinque piccole cappelle radiali con volta a crociera, una delle quali dedicata al Santissimo Sacramento.

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