Esanatoglia la città dei sette campanili

Servirebbe una foto aerea o un volo in aliante sopra il suo centro storico per cogliere l’essenza della “Città dei sette campanili”, soprannome di Esanatoglia, borgo in provincia di Macerata. I sette campanili sono disposti ordinatamente lungo Corso Vittorio Emanuele, l’asse viario principale, da Porta Sant’Andrea a Porta Panicale, da dove si esce verso Valle di San Pietro. Accanto, compaiono torri ed edifici di origine medievale e rinascimentale, una fornace quattrocentesca, viuzze acciottolate, il tutto racchiuso da una cinta muraria lambita dal fiume Esino. Nella parte più antica svetta il campanile della Pieve di Santa Anatolia, già esistente nel 1180, con un’epigrafe in latino che sarebbe la prova di un insediamento romano al tempo delle conquiste di Augusto. Da qui, in pochi passi si raggiungono Palazzo Varano, attuale sede del Municipio, l’ex Chiesa di San Francesco con gli affreschi trecenteschi del “Maestro di Esanatoglia” Diotallevi di Angeluccio, e più a valle le Fontane di San Martino, una volta chiamate Fonti di Fuori Porta, raro esempio di opera idraulica trecentesca in funzione da oltre 7 secoli.

Del medesimo Maestro si può ammirare il ciclo di affreschi che decora l’edicola campestre conservata nella Chiesa di Santa Maria di Fontebianco, appena fuori dall’abitato, mentre nella Chiesa di Santa Maria Maddalena lo sguardo è catturato dalla Crocifissione sull’altare maggiore, da due nature morte di origine fiamminga e da una cantoria lignea istoriata e dipinta, che conserva ancora le grate a garanzia della clausura delle Clarisse. Altra tappa religiosa è quella nell’ex Monastero di Fonte Bono, poi dei Cappuccini, sul Monte Corsegno, da cui si gode uno splendido panorama sulla valle.

Chi volesse rimanere nel borgo, sulla Piazzetta Cavour affacciano il Palazzo detto delle Milizie, il Palazzo del Podestà, ex mercato coperto, Palazzo Zampini, collegato alla Chiesa di Santa Maria, con tracce di affreschi di Diotallevi e la grande tela della Crocifissione dei fratelli De Magistris di Caldarola, datata al 1565.

Castello dei Vicari di Lari

Una rampa di quasi 100 gradini conduce all’ingresso del Castello dei Vicari di Lari, borgo medievale abbarbicato su un colle nella provincia di Pisa. Come racconta già il nome, la Rocca superiore di Lari, risalente a epoca pre-longobarda, distrutta e poi ricostruita tra il 1230 e il 1287, fu sede di importanti istituzioni politiche fra cui i vicari, passando ora sotto il dominio di Pisa, ora sotto quello di Firenze, del Granducato di Toscana e infine dello Stato Pontificio, periodo in cui accolse persino il Tribunale dell’Inquisizione romana.

Varcata la soglia si accede al cortile centrale, dove si trovano un’antica cisterna, una piccola cappella e il Palazzo Pretorio, con la facciata tempestata di numerosi stemmi dei vicari succedutisi al Castello per oltre quattro secoli. Il tour della fortezza prosegue negli spazi dediti alla difesa, alle carceri, alla Residenza del Vicario e al Tribunale. Per questo insieme di spazi diversificati e per l’ottimo stato di conservazione si tratta sicuramente di un unicum in Toscana, che in più può contare su un innovativo museo didattico interattivo.

Palazzo Blu

Sul Lungarno meridionale del centro storico di Pisa, all’altezza del Ponte di Mezzo e del Palazzo Gambacorti, sede del Comune, spicca un edificio dal colore inconsueto, detto appunto il Palazzo Blu. Si tratta di una dimora nobiliare restaurata e gestita dalla Fondazione Pisa, che ne ha fatto un polo espositivo fra i più attivi in città, e che deve la tinta insolita della sua facciata al fortuito recupero di un lacerto di affresco durante il restauro. Da qui, la coraggiosa decisione di ridipingerlo tornando al colore di un tempo, che secondo alcuni sarebbe dovuto a una visita nell’800 di alcuni ospiti di S. Pietroburgo che vi soggiornarono.

Vero o no questo episodio, oggi Palazzo Blu accoglie la Collezione permanente della Fondazione Pisa, con opere per lo più del territorio della provincia riconducibili a maestri quali Nino Pisano, Orazio ed Artemisia Gentileschi, Orazio Riminaldi e il Tribolo. Tre le sezioni: le collezioni d’arte della Fondazione Pisa, poste al secondo piano; la dimora aristocratica e le Collezione Simoneschi al primo piano. Al piano seminterrato trovano invece spazio Le Fondamenta, nuova sezione espositiva dedicata all’archeologia e alla storia medievale.

Museo Piaggio

Chiunque sia appassionato di due ruote sa cosa significa Pontedera. Qui, nella campagna pisana, si trova la sede che dagli anni Venti ospita la Piaggio, nella cui ex officina attrezzeria dal 2000 è stato allestito il Museo Piaggio, perfetta celebrazione di un mito del design Made in Italy. Un luogo di conservazione e valorizzazione di ciò che il marchio delle due ruote ha rappresentato in Italia e nel mondo, offrendo anche spunti di riflessione sulle trasformazioni economiche, di costume e di sviluppo industriale di cui la Vespa e tutti gli altri modelli dell’azienda pisana sono stati e sono tutt’oggi icona. Ricchissimo l’Archivio Storico e lo spazio espositivo, con 5.000 mq dedicati a oltre 250 esemplari unici e prototipi, che fanno del Museo Piaggio il più grande e completo museo italiano dedicato alle due ruote.

Senza esagerazione alcuna, si può dire che la memoria del Gruppo Piaggio, il cosiddetto heritage del brand, attraversa l’intera storia dei trasporti, grazie a ciò che la casa madre ha saputo creare fra navi, treni, aeroplani, auto, scooter e le immancabili motociclette dalle linee inconfondibili.
Un museo affiancato oggi anche da uno spazio di 340 mq per esposizioni temporanee, che vanno dall’arte alla tecnologia, dalla divulgazione scientifica alla moda.

Museo Nazionale della Certosa Monumentale di Calci

Committente fu l’Arcivescovo di Pisa, “sponsor” le più illustre famiglie pisane. Questa l’origine della Certosa di Calci, gioiello architettonico sorto nel 1366 e più volte ampliato nei secoli seguenti, fino a diventare Museo Nazionale della Certosa Monumentale di Calci. L’arrivo alla Certosa è accompagnato da due viali alberati che costeggiano un percorso pedonale. Man mano che ci si avvicina si ha modo di respirare l’atmosfera mistica di un luogo immerso nel silenzio e nella natura incontaminata, quella della Valgraziosa, una distesa di ulivi e campagna in grado di trasmettere pace. Una volta entrati, ci si perde fra ambienti ricolmi di opere d’arte, ciascuno dei quali con pavimenti in marmo di Carrara in tre tonalità – bianco, nero e grigio – posati in maniera prospettica e con disegni sempre diversi: il corte d’onore, la farmacia, la chiesa, le cappelle, il chiostro dei padri e la cella, il chiostro e la cappella del capitolo, il refettorio, la foresteria e il chiostro granducale.

La visita permette di addentrarsi anche nelle dinamiche organizzative di un ordine religioso di ben sette secoli fa. La regola principale era che i Padri erano 14 e non ne poteva essere ammesso un altro se non per la morte di un suo predecessore. Si trattava solo di nobili o ricchi, e il loro compito era esclusivamente quello di pregare, seguendo la più stretta clausura, uscendo solo la domenica a pranzo quando la comunità si riuniva nel refettorio. La foresteria e l’appartamento detto “Granducale” ricordano il periodo in cui la Certosa di Calci era la più importante del Granducato e veniva quindi presa come punto di riferimento per brevi soggiorni da chi era desideroso di un’esperienza mistica, vale a dire parenti dei Padri e il Granduca stesso. Molto suggestiva la visita agli spazi riservati alla vita eremitica, al chiostro grande con le 14 celle dei monaci e agli ambienti di natura religiosa. I locali di servizio del monastero sono invece stati riconvertiti a sede del Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa.

Museo Giorgio Kienerk

Un artista poliedrico, prolifico e generoso, ma soprattutto innamorato delle Colline Pisane e di Fauglia. Nato a Firenze nel 1869, Giorgio Kienerk era solito trascorrere le sue vacanze estive con la famiglia a Poggio alla Farnia, poco lontano da Fauglia. Non stupisce quindi che la figlia Vittoria, altrettanto affezionata a questi luoghi, abbia donato alla comunità circa 130 opere, oggi cuore del Museo Kienerk, allestito nei locali delle vecchie carceri giudiziarie di Fauglia, in Via Chiostra. Una collezione che spazia dai dipinti alle sculture, dai bassorilievi ai disegni, dai taccuini con schizzi a china e a matita alle litografie, coprendo tutto il percorso artistico di Giorgio Kienerk, dalla produzione giovanile alla maturità.

Borgo di Ortezzano

Con i suoi quasi tremila anni di storia, il borgo marchigiano di Ortezzano, nel fermano, è un crogiuolo di storia, arte e cultura. I primi reperti parlano di un insediamento di Piceni già nel IX secolo a.C., cui seguirono i romani che divisero questo territorio in centurie per distribuirlo ai veterani. Dall’VIII secolo Ortezzano iniziò a essere parte dei domini farfensi, ossia gravitanti sotto il potere dell’Abbazia di Farfa, nel Lazio, mentre a partire dal IX, precisamente nel 927 d.C., furono i duchi di Spoleto a modificarne l’aspetto erigendo il Castrum Ortezanii, con mura castellane per proteggere l’abitato dalle frequenti scorrerie di Ungari, Saraceni e Normanni. Per secoli, fino al ‘700, fu poi parte dello Stato Pontificio, periodo durante il quale prese piede il sistema delle mezzadrie, con una capillare organizzazione del territorio in poderi sempre più frazionati. Questo determinò uno sviluppo dell’economia fortemente connesso all’agricoltura e a tutto ciò che comportava trasformazione e commercializzazione dei prodotti. Fra le colture che si diffusero di più c’erano olio, vino, frutta e verdure, e parallelamente l’allevamento di suini. Da qui derivò una cucina a base di piatti quali l’agnello arrosto co’ battuto, il castrato, la polenta, i vincisgrassi, leccornie oggi celebrate da una serie di sagre ed eventi a tema enogastronomico. Ne sono un esempio alcuni eventi che animano il calendario: “Somaria: l’Asino tra arte natura e poesia” per riscoprire il valore della “slow life”, il Festival Filosofico e il Certamen Latinum, dedicati questi ultimi all’illustre latinista Giuseppe Carboni nativo di Ortezzano e coautore del vocabolario di latino “Campanini-Carboni”.

Venendo a ciò che Ortezzano offre a un turista anche di passaggio, in Largo del Carmine ci sono due dei monumenti che vale la pena appuntarsi in un viaggio alla scoperta della provincia di Fermo. Si tratta della Torre Ghibellina, del XIII secolo, vessillo del borgo, e della Chiesa del Carmine, detta anche del Suffragio, in quanto proprietà dell’omonima Confraternita. Commissionata da Giulio Papetti, avvocato della curia romana, fu costruita tra il 1715 e il 1725 in un interessante mix di stile barocco e neoclassico. La Chiesa, a pianta a croce latina con copula ottagonale e campanile risalente al 1847, al suo interno mostra una decorazione moto sobria, in cui spiccano gli elementi architettonici della muratura, realizzata totalmente in mattoni rossi, elemento iconico delle Marche. Quattro piccole sagrestie con copertura a volta si trovano ai quattro angoli, collegate l’una all’altra raffigurazioni della Via Crucis Xilografica.

Proseguendo la visita del centro storico, si punta verso la Chiesa di Santa Maria del Soccorso, che deve il suo nome a un affresco che adorna una delle cappelle laterali: datato al 1323 e ad opera del monaco benedettino Giacinto di Morro di Valle, raffigura Santa Maria delle Grazie e i Santi Gerolamo e Maria Maddalena, il tutto a memoria della chiesa precedente scomparsa, appunto la Chiesa di Santa Maria delle Grazie. Altre opere da ammirare sono una via Crucis di scuola romana e di ottima fattura, un fac-simile della Bibbia aurea di Borso D’Este, alcune vetrate in mosaici policromi istoriati, un mosaico in oro che corre lungo il cornicione interno e una serie di arazzi posti ai lati dell’altare e provenienti niente meno che dalla Reggia di Caserta. Da non perdere un organo datato al 1751, capolavoro di Giuseppe Attili, nativo di Ortezzano, Maestro costruttore di organi del Settecento, fra i migliori della scuola di Montecarotto, nell’anconetano.

La perla del Sannio – Borgo Sant’Agata de’ Goti

“Perla del Sannio“ e “gioiello della Valle Caudina”. I soprannomi di Sant’Agata de’ Goti anticipano già tutto e vanno ad enfatizzare ciò che racconta anche il nome, frutto di una summa dei vari periodi storici che l’hanno interessata: nell’VIII secolo, fu intitolata alla Santa catanese e dunque fu costruita la Chiesa di Sant’Agata de Amarenis, mentre in epoca normanna, intorno al 1117, si aggiunse la seconda parte, con l’arrivo nel territorio di Sant’Agata della famiglia di feudatari francesi Drengot. Ed ecco appunto Sant’Agata de’ Goti.

Anche architettonicamente, la cittadina in provincia di Benevento – il cui Centro Storico è inserito nel circuito de “I borghi più belli d’Italia” – è un perfetto connubio fra lasciti di epoca romana, longobarda e del XIX secolo. Non solo. Dal 2005, grazie alla ricca campagna che la circonda, fa parte dell’associazione Nazionale Città del Vino. Basta fare due passi fuori dall’abitato per ritrovarsi davanti a un’antica masseria, a contrade di case contadine vecchie di secoli.

Il consiglio da conservare, per apprezzare Sant’Agata de’ Goti nel suo insieme, è di andare sul ponte del torrente Martorano: da qui si può notare come il Centro Storico sorge su un promontorio di tufo che ricorda una mezzaluna, materiale fra i più friabili e instabili, ma che qui è stato sfruttato al meglio con costruzioni adatte al caso. A guardarlo sembra quasi un miracolo, sospeso sulla vallata in cui scorre placido il torrente.

Auditorium Sant’Antonio da Padova

Fra le Confraternite di maggior peso della Diocesi di Ortezzano c’è quella del Santo Spirito, committente di uno degli edifici sacri più significativi del borgo marchigiano: la Chiesa di Sant’Antonio da Padova, definita “rurale” perché situata “fuori dalla porta del castello”. Dopo anni di abbandono, nel 1811 viene acquistata dal demanio per poi essere ceduta nel 1831 dalla Tesoreria generale di Roma ai sacerdoti Benedetto e Raffaele Carboni in vista di un restauro e della riapertura al culto.
Nel 1863 tutto ciò si è compiuto e la piccola chiesa rurale cambia destinazione d’uso e diventa chiesa cimiteriale. Qui viene sepolto il noto latinista prof. Giuseppe Carboni, che per i cultori del genere è un po’ la “voce” narrante di quanto giunto a noi dagli autori antichi. Ma la storia di questo luogo non trova ancora pace: negli ultimi anni, la Chiesa di Sant’Antonio da Padova a Ortezzano viene sconsacrata e diventa auditorium comunale, ospitando concerti e mostre.

Paleolab – Museo del Parco Geopaleontologico

Alghe fossili e gusci di bivalvi con un diametro fino a 20 cm si trovano inclusi nelle pietre di colore grigio chiaro utilizzate per lastricare strade e piazze di Pietraroja, nel beneventano, e del vicino borgo di Cusano Mutri. Il perché di questo fenomeno è presto detto: nel Cretaceo, Pietraroja era lambito da una laguna. Ora di quella laguna se ne ha traccia nei reperti conservati nel Paleolab – Museo del Parco Geopaleontologico, sistema multimediale che permette al visitatore di viaggiare indietro nel tempo di 100 milioni di anni, per ritrovarsi immersi nell’Oceano Tetide, a quando cioè questa zona della Campania era popolata da pesci, coccodrilli e salamandre, e soprattutto dallo Scipionyx Samniticus, un piccolo di celosaurus di cui è stato ritrovato un esemplare che rappresenta un vero unicum, con gli organi e le fibre muscolari ancora intatti.

Il percorso di visita del Paleolab di Pietraroja ricorda la scena del film Stargate, in cui varcando una soglia ci si ritrova in un’atra era: il viaggio ha inizio con un “ascensore geologico”, una sorta di teletrasporto grazie al quale in pochi secondi ci si ritrova nel Cretaceo. Gli exibit, le scenografie, i filmati e un grande acquario interattivo permettono nelle prime sale del museo di entrare in questo ambiente tropicale e di conoscerne gli abitanti. Il percorso termina con un excursus sulla storia degli esseri viventi sulla Terra ripercorsa attraverso i fossili.

Per stimolare le future generazioni di paleontologi è stato allestito un campo scavi per i bambini che vogliono cimentarsi con le fatiche ma anche le molte emozioni che regala questo mestiere, cui segue un laboratorio didattico dove è possibile, usando forme di gesso, creare un piccolo calco dei reperti esposti.

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