Castello Svevo di Barletta

Là dove oggi ci sono Biblioteca comunale, Museo Civico e sale per convegni e mostre, un tempo c’erano cavalieri e soldati pronti a difendere la costa pugliese dagli attacchi nemici. Il Castello di Barletta è da circa dieci secoli un punto di riferimento lungo il litorale della provincia barese, oltre che dell’intera Puglia, che fra queste possenti mura – perfettamente restaurate fra il 1973 e il 1988 – ha visto passare nell’ordine Normanni, Svevi, Angioini e Aragonesi. Il momento clou di questo maniero trasformato nel tempo in fortezza militare fu quando Federico II di Svevia lo incluse tra i castelli del Giustizierato della Terra di Bari, ossia in quella rosa di edifici difensivi da lui eretti, o frutto di un adattamento di una precedente costruzione normanna, distribuiti su tutto il territorio, da qui fino in Basilicata, tenendo come perno quell’unicum assoluto che è ancora oggi Castel Del Monte.

Il susseguirsi di diverse dominazioni testimonia l’importanza rivestita nei secoli dal Castello di Barletta, strategico ieri per motivi militari, oggi come fulcro della vita cittadina. Il Museo Civico al suo interno è fra i luoghi culturali più significativi di Barletta, grazie anche alla presenza di due opere di notevole pregio: un presunto busto di Federico II in pietra calcarea, datato al XIII secolo, e il Sarcofago degli Apostoli, altorilievo in pietra risalente al periodo compreso tra il III e il IV secolo.
A epoche ben più recenti risale invece l’uso del Castello di Barletta come set cinematografico, essendo stato scelto da importanti registi per pellicole diventate memorabili: Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, Otello di Franco Zeffirelli e I cavalieri fecero l’impresa di Pupi Avati.

Otranto

Punta Palascìa è il luogo geografico più a est della penisola italiana. Per chi ama segnare sulla mappa certe tappe che sanno di “conquista”, basterebbe anche solo questo motivo per spingersi fino a Lecce e visitare Otranto e la costa salentina. Il centro storico della cittadina che in passato ha dato il nome al tratto di mare che separa l’Italia dall’Albania – il Canale d’Otranto – e all’antica circoscrizione del Regno di Napoli – la Terra d’Otranto – ha aggiunto nel 2010 un altro “titolo” di merito, l’inserimento nel listing ufficiale dei Patrimoni Culturali dell’UNESCO quale Sito Messaggero di Pace e in quello dei “Borghi più belli d’Italia”, mentre all’ottobre 2006 risale la creazione del Parco Costa Otranto – Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase, nato per salvaguardare e promuovere le numerose bellezze naturalistiche, storiche e architettoniche della zona.

Fra queste, ci sono senz’altro i numerosi resti lasciati dalle popolazioni antiche che hanno dominato il territorio, a partire dai Messapi, passando per i Greci e i Romani. Sotto quest’ultimi, Otranto divenne una delle città marinare più fiorenti della Puglia, grazie soprattutto alla lavorazione e commercializzazione di porpora e tessuti, e alla presenza di una consistente comunità ebraica, calcolata in circa 500 famiglie, tanto da generare un detto rimasto negli annali, “da Bari uscirà la legge, la parola del Signore da Otranto”. La sua importanza economica dell’epoca è testimoniata anche dal fatto che nel 162 d.C. la città chiese a Roma e ottenne di battere moneta con una zecca propria rimasta attiva fino al II d.C. Diventata “ponte” culturale e commerciale fra Oriente e Occidente, Otranto fece per secoli da “culla” al passaggio di Bizantini, Goti, Normanni, Svevi, Angioini e Aragonesi. Fra gli episodi storici più significativi va ricordato quando nel 1095 la sua Cattedrale fu scenario della benedizione di dodicimila crociati in partenza verso la Terra Santa, guidati dal principe Boemondo I d’Altavilla. Al 1480 risale invece l’attacco dei Turchi di Maometto II, con un assedio durato 15 giorni terminato con la strage della popolazione e la decapitazione di 800 uomini detti Santi Martiri idruntini. A questo episodio è legata anche la distruzione del Monastero di San Nicola di Casole, sede della più vasta biblioteca d’Occidente – i cui Codici sono oggi conservati in prestigiose biblioteche di tutta Italia e non solo, da Venezia e Firenze a Parigi, Londra, Berlino e Mosca, nonché di quello che si potrebbe definire il primo “college” della storia, con studenti provenienti da tutta Europa. Uno di questi fu il monaco Pantaleone, autore del monumentale mosaico pavimentale della Cattedrale, il più grande del Vecchio Continente.

Dopo il colpo inflitto dai Turchi, furono rafforzate le opere difensive del centro abitato, che però non poterono respingere le incursioni dei Saraceni della prima metà del Seicento. Alterne vicende determinarono poi la risalita e la ricaduta di Otranto varie volte, fino al periodo napoleonico, quando le fu concesso il titolo di Ducato del Regno di Napoli, cui seguì una nuova rinascita.

Castello di Otranto

Un tempo, al posto del ponte ad arco in pietra e legno che oggi attraversa il profondo fossato del Castello di Otranto c’era un ponte levatoio. Da autentica fortezza di fine ‘400 qual è, da allora il maniero difende la città in provincia di Lecce. Varcata la soglia, si transita poi in un corridoio stretto che immette direttamente nell’atrio del piano terra e da qui alle sale principali, fra cui una triangolare creata a metà ‘500, in seguito all’aggiunta esterna del bastione tra le Rondelle.
Bella anche la Cappella, parzialmente affrescata, e l’intrigo di cunicoli, gallerie e piccoli ambienti che definisce il sistema dei sotterranei rimasti così sin dalla loro costruzione, risalente al primo impianto di fine ‘400. La visita conduce poi all’interno delle tre Rondelle poste agli angoli, coperte da cupole emisferiche in pietra carparo. Qui, come pure lungo i camminamenti di ronda e in alcuni ambienti, si scorgono numerose feritoie per la disposizione di cannoniere, oltre a stemmi araldici di sovrani e nobili che raccontano la storia del Castello, rimandando a battaglie e personaggi di secoli fa. Uno su tutti, lo stemma posto sul portone d’ingresso, appartenente all’Imperatore Carlo V.

Il fascino di questa fortezza ha sempre suscitato grande interesse, anche nei secoli addietro, come dimostra il fatto che il primo romanzo gotico mai scritto sia proprio ispirato e ambientato proprio qui. Per chi volesse leggerlo, si tratta de Il castello di Otranto, di Horace Walpole, datato al 1764.

Acquedotto Carolino (Vanvitelliano)

Monte Taburno, Valle di Maddaloni, provincia di Caserta. Parte da qui e corre per 38 km quello che è passato alla storia come Acquedotto Carolino o Vanvitelliano, e che nella realtà ha rappresentato una delle opere di maggior interesse ingegneristico del XVIII secolo. Progettato per alimentare le “reali delizie” disseminate nel parco della Reggia di Caserta e il Complesso Monumentale di San Leucio – comprendente l’antica Fabbrica della Seta, l’Appartamento storico e la Casa del Tessitore – ha richiesto 16 anni per la sua costruzione (dal 1753 al 1770) e la collaborazione dei più stimati ingegneri, architetti e matematici del Regno di Napoli, fra cui appunto Luigi Vanvitelli, già artefice della Reggia e al soldo di re Carlo di Borbone. Questi tre capolavori, perché tali sono ciascuno a suo modo sia la Reggia, che l’Acquedotto e la Fabbrica, dal 1997 sono inseriti nel listing del Patrimonio Mondiale dell’Unesco. A tale triade perfetta si aggiunge una quarta opera di tutto rispetto, firmata sempre dal Vanvitelli, i “Ponti della Valle”: all’epoca era il ponte più lungo d’Europa, composto da tre ordini di arcate poggianti su 44 piloni a pianta quadrata, per una lunghezza di 529 metri e un’altezza di 55,80 metri. Fra le particolarità che lo caratterizzano c’è quella di avere alla sua base, dal 1899, un monumento-ossario contenente i resti dei soldati morti nella battaglia del Volturno.

L’inaugurazione del colossale impianto idrico dell’Acquedotto Carolino diede il via allo sviluppo economico di tutto il casertano, con la nascita del Complesso di San Leucio, colonna portante dell’intero sistema locale, e di numerosi mulini lungo il suo articolato percorso.
Al termine di esso, all’interno del parco della Reggia, si trova una grotta artificiale da cui parte una diramazione verso il Belvedere, filanda-regia voluta da Ferdinando IV per la produzione e tessitura della seta, ricavata nell’ex casino di caccia della famiglia degli Acquaviva, circondato da magnifici giardini rinascimentali. Un altro ramo dell’Acquedotto porta invece alla Reale Tenuta di Carditello, la fattoria modello voluta sempre da Ferdinando IV.

Fortezza Svevo-Angioina di Lucera

Capanne neolitiche, resti del periodo romano, paleocristiano, svevo e angioino. Passeggiare sul Colle Albano di Lucera, in provincia di Foggia, è come leggere un libro di storia. A ogni strato corrisponde una civiltà, in un susseguirsi di emergenze archeologiche e architettoniche che rendono prezioso questo lembo di Puglia. Fra i lasciti più importanti c’è di sicuro la Fortezza svevo-angioina di Lucera, detta anche Castello di Lucera, in una posizione strategica dominante sul Tavoliere di Puglia. La funzione originaria della fortezza doveva essere quella di ospitare il Palatium di Federico II, il palazzo imperiale del quale oggi purtroppo si possono ammirare soltanto alcuni resti, che a tratti ricordano la struttura ottagonale del celebre Castel del Monte ad Andria, altro capolavoro di ingegneria militare di epoca federiciana. Il Palatium, realizzato attorno al 1233, cinquant’anni più tardi veniva inglobato nella fortezza costruita in seguito all’assedio della città da parte di Carlo I d’Angiò, con una cinta muraria di circa 900 metri di perimetro, 13 torri quadrate, 2 bastioni pentagonali, 7 contrafforti e 2 torri cilindriche angolari, la Torre “della Leonessa” e la Torre “del Leone”.
All’interno delle mura, sfruttando anche materiali prelevati dalle costruzioni romane della zona, venne poi realizzata una vera e propria cittadella militare, con case, caserme, una cisterna e una chiesa gotica. Un microcosmo che, poco dopo, attorno al 1300, venne messo sotto assedio e distrutto, per poi rinascere nel XIX secolo grazie a importanti lavori di restauro ed essere dichiarato Monumento nazionale nel 1871.

Castello di Manfredonia

Per ammirare il Castello di Manfredonia in tutta la sua complessità e bellezza servirebbe sorvolarlo in aliante, in silenzio, per immaginare come doveva essere la vita nel Medioevo, quando in questo anfratto della costa pugliese sbarcavano mercanti e soldati in viaggio verso l’Oriente. Se oggi il maniero si presenta proteso verso il mare e circondato su tre lati dalla città, un tempo era isolato e difeso da un profondo fossato che ne lambiva le mura e i torrioni, tre tondi e uno pentagonale a ovest, detto dell’Annunziata.

Una struttura architettonica duecentesca imponente e severa, che richiama i canoni costruttivi degli Svevi – a fondarlo fu Manfredi di Sicilia, figlio di Federico II, da cui deriva il nome stesso della città -, non senza sovrapposizioni di influenze angioine e aragonesi, fino a quel 1620 che lo vide capitolare all’arrivo dei turchi. Con l’acquisto nel 1901 da parte del Comune e poi il passaggio allo Stato nel 1968, il Castello di Manfredonia è diventato sede del Museo Archeologico Nazionale del Gargano, offrendo un prezioso excursus storico-artistico dal tempo della dominazione dei Dauni nell’area del Gargano e del Tavoliere fino all’età rinascimentale.

Castello Brown

Genova vs Milano. Si può riassumere così la storia all’origine del Castello Brown di Portofino. I fatti: nel 1425, Tomaso Fregoso, doge della Repubblica di Genova fino al 1421, occupa il borgo e la sua fortezza, per contrastare il tentativo di evasione di Filippo Maria Visconti duca di Milano. Nel 1430, ci pensa Francesco Spinola di Ottobono a rimettere le cose a posto e a far tornare Portofino e la fortezza fra i possedimenti della “Superba”. Strategico con la sua funzione di “vedetta” sul borgo e sul Golfo del Tigullio, il castello è nei secoli oggetto di numerosi assedi, e poi di diversi lavori di restauro e ampliamento, alcuni voluti e condotti persino da Napoleone Bonaparte in persona. Dal 1867 al 1905 diventa dimora di Montague Yeats Brown, console inglese a Genova, e poi dal 1949 della famiglia Baber. Nel 1961, Castello Brown viene acquistato dal Comune di Portofino, che ad oggi ne fa il suo vessillo, affittandolo anche come location per eventi e matrimoni. Decisamente da favola.

Palazzo Vitelli alla Cannoniera – pinacoteca comunale

“Affinché non perisse la memoria del loro nome e del loro valore” in città. Il luogo in questione è Città di Castello, dove fra il 1521 e il 1532 fu costruito Palazzo Vitelli alla Cannoniera, voluto da Paola dei Rossi di San Secondo di Parma e dal marito Alessandro Vitelli, condottiero al servizio dei Medici, con l’intento di perpetrare la gloria della propria casata. Il progetto fu affidato a due dei maggiori architetti dell’epoca, Antonio da Sangallo il Giovane e Pier Francesco da Viterbo, mentre la facciata decorata a graffito fu realizzata su disegno niente meno che di Giorgio Vasari.

Un edificio che quindi non passava inosservato, anche per la presenza di un giardino esotico che in breve tempo si guadagnò una certa fama in tutta Europa. La fortuna di Palazzo Vitelli alla Cannoniera si deve anche al fatto che fra i numerosi proprietari succedutisi ci fu un certo Elia Volpi, ricco antiquario e abile restauratore che nella seconda metà dell’800 ne ripristinò l’antico splendore, appena prima che l’edificio fosse donato alla città perché diventasse sede della Pinacoteca Comunale. Duccio di Buoninsegna, Luca Signorelli, Raffaello, Ghirlandaio, Antonio Vivarini, Giusto di Gand, Raffaellino del Colle, Pomarancio… Sono solo alcuni dei Maestri del Rinascimento autori delle opere di cui oggi la Pinacoteca di Città di Castello si può fregiare, impreziosita da mobilio proveniente da chiese e conventi locali e dai meravigliosi affreschi di Cristofano Gherardi, detto il Doceno, e di Cola dell’Amatrice con motivi raffiguranti le imprese di Annibale, Scipione, Cesare e Alessandro Magno, volute da Alessandro Vitelli a celebrazione delle proprie doti militari.

Diga di Vajont

“La catastrofe del Vajont. Uno spazio della memoria” e “Vajont: immagini e memorie”. Sono i titoli delle due mostre allestite all’interno del Centro Visite di Erto e Casso del Parco Naturale delle Dolomiti Friulane, i due borghi in provincia di Pordenone coinvolti nel disastro della diga del Vajont, avvenuto la sera del 9 ottobre 1963.

La prima mostra illustra in modo dettagliato la progettazione del bacino idroelettrico e l’intera vicenda legata alla frana del Monte Toc nel lago artificiale che causò il dilavamento delle sponde del lago e l’inondazione degli abitati del fondovalle, fra cui Longarone che venne praticamente raso al suolo. La seconda traccia un percorso storico della zona, con foto d’epoca incentrate su tradizioni, usi e costumi delle genti del Vajont, prima di quella tragica notte del 1963.

La sosta al Centro Visite e i percorsi di scoperta dell’area coinvolta dalla frana sono un modo per tenere vivo il ricordo di un evento che è stato definito “il più grande disastro causato dall’uomo”, ma anche per far conoscere una realtà naturalistica che, nonostante quella ferita profonda, è tornata a vivere offrendo un paesaggio diverso, trasformato, ma ancora fruibile, con itinerari segnalati da fare a piedi o in MTB.

Arengario

Nel cuore della città di Monza, si erge l’Arengario, un magnifico edificio simbolo da non perdere durante una visita nella capitale della Brianza. Costruito alla fine del XIII secolo l’Arengario rappresenta la contrapposizione tra i poteri religioso e civile, situato accanto al Duomo. Questo antico Palazzo comunale, con i suoi portici che un tempo ospitavano una parte del mercato coperto, è considerato il cuore pulsante della città secondo la prospettiva dei monzesi.

Una leggenda affascinante racconta che pochi anni dopo la sua costruzione, un incendio devastò l’edificio, suscitando una reazione così intensa da spingere alcuni cittadini al gesto estremo per il dolore. Tuttavia, grazie al forte senso civico della comunità, l’Arengario fu immediatamente ricostruito.

Oggi è possibile immergersi completamente nel suo fascino e nell’atmosfera medievale semplicemente passeggiando per la città ma è vivamente consigliato partecipare agli eventi, alle mostre o alle esposizioni che si tengono al suo interno durante tutto l’anno. Da non perdere il caratteristico balconcino sul lato sud del palazzo, noto in dialetto monzese come “Parléra”, da cui venivano letti al popolo i decreti del Comune.

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