Un po’ come Parigi è la Francia, così Roma è il Lazio, perché, inutile negarlo, la città Caput Mundi di ieri e di oggi, almeno di primo acchito, fagocita tutto quello che ha attorno. Ma lasciato alle spalle il GRA – il Grande Raccordo Anulare che cinge la capitale – c’è così tanto da scoprire che spesso bisogna fare i conti con scelte difficili. Puntare sulla costa o sui Colli Romani? Sulla campagna o sui monti dell’entroterra, fino a raggiungere le cime innevate del Terminillo? In effetti, si tratta di una Regione che, separando il Nord e il Sud d’Italia, raccoglie in sé cimeli e manifestazioni geoculturali diverse, diventate dal ‘700 in poi attrattiva irrinunciabile del cosiddetto Grand Tour, il percorso di formazione per eccellenza. Un must per artisti, letterati e raffinati traveller di tutta Europa, compreso un entusiasta Goethe, le cui memorie ed emozioni sono tramandate nel celeberrimo Viaggio in Italia. A condensare tutto ciò che significa Grand Tour nel Lazio contemporaneo c’è Tivoli, dove il welcome lo danno due dei sei beni laziali iscritti nel Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco (cinque escludendo Roma e il suo centro storico, immenso museo all’aperto): Villa Adriana, straordinario complesso architettonico risalente al II secolo d.C., e Villa d’Este, fulgido esempio di dimora patrizia rinascimentale, cui si aggiunge il parco romantico di Villa Gregoriana, all’interno del quale si trova la Grande Cascata, fra le tappe naturalistiche da non mancare. Restando nella provincia dell’Area Metropolitana di Roma si spazia dalla Necropoli Etrusca della Banditaccia a Cerveteri – che insieme a quella di Tarquinia nel viterbese è bene Unesco – a Castel Gandolfo, da secoli buen retiro papale, a pochi passi dai resti della Villa romana di Domiziano; dal Castello Orsini-Odescalchi di Bracciano affacciato sull’omonimo lago, a Palazzo Pamphilij ad Albano Laziale, entrambi frutto di quella voglia di primeggiare che fra il XVI e il XVIII spinse le famiglie patrizie più abbienti della zona a erigere dimore che parevano regge. Basta fare cenno a Palazzo Chigi ad Ariccia, o a Palazzo Farnese a Caprarola, già in provincia di Viterbo, per far volare la fantasia a quell’epoca d’oro, di balli e ricevimenti da sogno, in cui si conversava di arte e cultura facendo sfoggio di committenze d’eccezione, come pure si tessevano rapporti e alleanze politiche più o meno strategiche.
Già Viterbo meriterebbe da sola un viaggio per esplorare con attenzione il centro storico, fermo all’epoca medievale e con emergenze di notevole interesse, religioso e architettonico, come il Palazzo dei Papi, la Cattedrale di San Lorenzo e la Basilica di San Francesco alla Rocca. Dalla “Città dei Papi” si passa poi alla “Città che muore”, Civita di Bagnoregio, un pugno di case arroccate su uno sperone di tufo, che pare pronto a sgretolarsi da un momento all’altro, e che nel frattempo si fregia di essere fra i “Borghi più belli d’Italia”.
I due leit motiv costanti, luoghi sacri e d’arte, si ritrovano anche a Rieti e dintorni. Partendo dal centro cittadino, sembra di sfogliare un libro di storia, che salta dal bel Palazzo Vescovile del Duecento al Teatro Flavio Vespasiano, che a dispetto del nome risale alla fine dell’800, fino al Ponte romano, quello sì, cimelio del passato, parte della Via consolare Salaria. Nella sua piacevolezza rurale, la campagna reatina è però anche crogiuolo di monumenti di tutto rispetto, che riportano ancora una volta su strade di fede. A Greccio si visita il Santuario fondato nel 1288 nei pressi della grotta che ospitò San Francesco, e a Fara in Sabina l’Abbazia di Farfa, al centro di un territorio noto per la bontà del suo olio extravergine di oliva, non a caso detto l’”oro della Sabina”. Spingendosi più all’interno ecco Amatrice, fin troppo nota per il terremoto del 2016, che introduce il grande tema dell’enogastronomia regionale, o meglio, provinciale, data la varietà di piatti che pare andare di pari passo al mutare delle inflessioni dialettali. Le eccellenze in bottiglia si concentrano soprattutto nell’area dei Castelli Romani, in Ciociaria quelle casearie, dove la cultura buttera si riflette in piatti di carne di cavallo e vaccina, oltre all’intoccabile abbacchio, re delle tavole laziali, pasquali e non solo, da Viterbo in giù.
Mancano ancora due provincie, Frosinone e Latina, dove molto altro ci aspetta. A Frosinone si scoprono i resti dell’Anfiteatro romano, ad Anagni il Duomo e il Palazzo dei Papi, a Montecassino l’imponente Abbazia, il secondo monastero più antico d’Italia. Infine, Latina, che di per sé rappresenta la summa dei canoni dell’architettura del ventennio fascista, ma soprattutto vanta una serie di borghi e destinazioni marine una più meritevole dell’altra: Sperlonga, San Felice Circeo, Sabaudia, Terracina, Gaeta, Formia e, da ultimo, le Isole Ponziane.
Gli appassionati di trekking e outdoor troveranno sfogo in numerose zone sotto tutela, a partire da ben tre Parchi Nazionali – del Circeo, del Gran Sasso e Monti della Laga, e d’Abruzzo, Lazio e Molise – e in moltissime aree e riserve protette, situate lungo la costa come nell’entroterra. Una nota a parte meritano i due beni dichiarati nel 2017 Patrimonio Unesco: la Faggeta vetusta depressa di Monte Raschio, all’interno del Parco naturale regione di Bracciano-Martignano, e la Faggeta di Monte Cimino, fra le più maestose dell’Italia centrale.
Luoghi come l’Abbazia cistercense di San Domenico a Sora, nel frosinate, fanno la gioia di studiosi, archeologi e appassionati di arte antica. Stando ai documenti, la prima consacrazione avvenne nel 1011, ma c’è chi attesta nel 1030, ad opera dell’abate Domenico di Foligno a suggello pubblico di penitenza, conversione e devozione di due fedeli “speciali”, Pietro Rainerio, governatore di Sora e d’Arpino, e Doda sua moglie. Il 22 agosto del 1104 sarebbe invece avvenuta una riconsacrazione per mano di Papa Pasquale II, durante la quale, al titolo originario di Beata Madre di Dio e Vergine Maria, sarebbe stato aggiunto anche quello di San Domenico.
L’impronta romanica e gotica si evince dalla semplicità rigorosa della facciata, dalla pianta a croce latina con tre navate, dai tre absidi semicircolari, e dalla copertura a volta sostenuta da colonne. La presenza della cripta sotterranea è solo una piccola parte di ciò che custodisce il sottosuolo: l’abbazia di San Domenico sorge infatti sulle rovine di una villa di Marco Tullio Cicerone, il celebre oratore vissuto ai tempi di Cesare e Augusto. Oggi l’edificio è parte della Congregazione Cistercense di Casamari.
Il 17 luglio 1879, quasi 7 secoli dopo la sua fondazione, la Certosa di Trisulti di Collepardo, nel frosinate, veniva riconosciuta Monumento Nazionale. A volerla fu nel 1204 Papa Innocenzo III, che quattro anni più tardi la affidava ai monaci Certosini, rimasti a prendersi cura delle anime dei fedeli di passaggio ma anche dell’immenso patrimonio d’arte accumulato nell’imponente edificio fino al 1947. Da allora, sono invece i Cistercensi che ogni giorno si dedicano con passione alla tutela del vasto complesso, composto da mura, chiesa, foresteria, giardini, farmacia e biblioteca. Solo in quest’ultima, sono conservati ben 36.000 volumi, mentre nella farmacia si possono ancora ammirare mobilio, vasi in ceramica e magnifici trompe l’oeil di ispirazione pompeiana.
Arezzo, Santuario de La Verna, e da qui giù fino a Roma. Queste le stazioni di inizio e fine del Cammino di Francesco, che nella sua parte mediana transita per la cosiddetta Valle Santa Reatina. È infatti nella campagna della provincia di Rieti che San Francesco si recò più volte, fra il 1209 e il 1226, fondando quattro santuari e compiendo atti che hanno segnato la sua esistenza e quella della Cristianità intera: la realizzazione del primo Presepe, la stesura della Regola dell’Ordine Francescano e la composizione del Cantico delle Creature.
Il Cammino si compone di otto tappe per un totale di 80 km, da percorrere con la dovuta lentezza, per godere di paesaggi meravigliosi e luoghi d’arte di tutto rispetto. Fra questi, spiccano senz’altro i Santuari voluti dal “Poverello” – quelli di Greccio, La Foresta, Poggio Bustone e Fonte Colombo – il centro storico di Rieti, l’Abbazia di San Pastore e il bosco del Faggio di San Francesco a Rivodutri, nella Riserva naturale dei Laghi Lungo e Ripasottile. L’alternativa al cammino è la Ciclovia della Conca Reatina, ma per tutti, da portare con sé e da far timbrare a ogni tappa, c’è il “Passaporto”, oppure, per chi ci mette meno di due giorni, l’ “Attestato del pellegrino”.
I 120 km della Via Francigena del Nord non sono che una minuscola porzione dei 1800 km dell’intero cammino, quello che da Canterbury, nel cuore dell’Inghilterra, conduce fino a Roma. Ma attraversare la Tuscia Viterbese, da Proceno a Monterosi, dà già un assaggio di ciò che significa questa esperienza, di vita prima ancora che di fede. Intraprendere ogni giorno un pezzo di quell’antico itinerario vuol dire meditare, fermarsi a contemplare, dentro e fuori se stessi, ripartire con più consapevolezza. Anche grazie alle molte bellezze naturalistiche e storico-artistiche che si ammirano lungo la “Via delle Vie”. Da Viterbo, si dipartono due direttive della Via Francigena della Tuscia, verso Vetralla e verso la Variante Cimina. Quest’ultima è senz’altro la più suggestiva, poiché ripercorre il profilo del cratere vulcanico del Lago di Vico, per poi immergersi in boschi incontaminati.
A fare da collante a tutte le varie alternative possibili, dal 2001 è stata creata l’Associazione Europea delle Vie Francigene (AEVF), che ha anche il prezioso compito di tessere relazioni fra le realtà locali nei Paesi attraversati (Inghilterra, Francia, Svizzera e Italia), e promuovere i valori dei pellegrinaggi, partendo dallo sviluppo sostenibile dei territori attraverso un approccio culturale, identitario, turistico.
In una Regione come il Lazio traboccante di istituzioni museali, essere annoverati fra le raccolte più antiche non è cosa da poco. Il Museo Civico di Rieti nasce infatti nel 1865, quando in seguito all’esproprio dei beni degli enti ecclesiastici e delle chiese chiuse al culto, venne creata una prima Quadreria Civica di Rieti, che già allora vantava opere di Zanino di Pietro, Luca di Tommè e Antoniazzo Romano. Un “prodromo” che non ha mai smesso di arricchirsi, grazie a donazioni di privati, soprattutto appassionati cultori di antichità romane, e acquisizioni pubbliche. Due le aree espositive, la Sezione Storico-Artistica e la Sezione Archeologica, dove sono raccolti materiali di scavo e di spoglio della città e del territorio suddivisi in sale a tema: La vita, la morte, la religione, Monete e sculture, Rieti dall’età romana al medioevo, Le necropoli e così via. Nel 2007 il museo ha aperto anche l’Ala dei Sabini, con reperti di età protostorica e romana della Sabina reatina e sale quali Le ville del territorio Sabino e I centri urbani della Sabina.
Il rischio di chiamarla pizza farcita c’è, ma quei due dischi di pasta ricolmi di prelibatezze di terra o di mare che vengono proposti a Gaeta e dintorni, non sono altro che le basi della tiella. La differenza vera sta nella lavorazione della sfoglia, più accurata e fatta a mano, morbida e gustosa tanto da meritarsi nel 2005 il marchio “Denominazione Comunale d’Origine”. E risalendo appunto alle origini di questa specialità della tradizione laziale, già contadini e pescatori dell’epoca dei Borboni la consumavano come piatto unico, nei campi o a bordo dei galeoni, per la sua completezza, gustosità e durevolezza nei giorni.
Se si era a bordo, la si farciva con polpo, calamaretti, baccalà, alici, sarde e cozze con l’aggiunta, a seconda della cambusa, di scarola, spinaci, zucchine e cipolle, verdure presenti anche nella versione rustica, di terra. Il segreto per farla buona è presto detto: l’olio di Gaeta, che un tempo doveva scorrere fino ai gomiti, essere cioè così abbondante da straripare su tutti i lati, ma tant’è… Ne basta anche solo un filo per avere un prodotto genuino e da gourmand.
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