Lo Sapevate che c’è un’antica Via della Seta anche in Italia, e precisamente in Calabria? Siamo in provincia di Catanzaro, dove già in epoca magnogreca aveva attecchito l’arte della tessitura, che poi in età bizantina si sviluppò a tal punto da far diventare l’intera Regione una “costola” della produzione serica “Made in Costantinopoli”.
Dal Medioevo fino al secolo scorso, il territorio si presentava costellato di piantagioni di gelso, nutrimento dei bachi da seta, e non c’era famiglia che non sapesse produrre e tessere il prezioso filo secondo tradizione. Vera età dell’oro fu il periodo tra il ‘400 e il ‘500, e Catanzaro stessa divenne il secondo centro di produzione serica di tutto il Paese, seconda sola a Napoli, tanto che Carlo V concesse alla città gli Statuti dell’Arte della Seta.
Dopo secoli floridi, nel Novecento l’esportazione andò calando fino quasi a scomparire, ma nei piccoli borghi del catanzarese quest’arte antica non è mai morta, anzi. Per accorgersene basta percorrere l’itinerario a tappe che li collega l’uno all’altro, un filo, è il caso di dirlo, lungo quasi 200 km che passa da Taverna, Tiriolo, Caraffa, Roccelletta di Borgia, Squillace, Amaroni, Cortale e giunge a San Floro, toccando ovviamente anche il capoluogo. L’occasione può essere colta anche per scoprire le molte altre tradizioni antiche che caratterizzano la zona, da quelle enogastronomiche, oggi esaltate da presidi Slow Food e chef stellati che le rendono protagoniste di piatti contemporanei, a quelle culturali e folcloristiche, in un insieme che regala un’esperienza rilassante da ricordare, grazie anche a scorci naturalistici di grande bellezza e al ritmo lento di questi luoghi.
Il Museo di Capodimonte di Napoli, il Museo Civico di Rovereto, il Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, il Victoria and Albert Museum di Londra e il Metropolitan di New York hanno un minimo comun denominatore: reperti di varie epoche realizzati in ceramica graffita di Squillace, lavorazione così particolare da aver ricevuto il riconoscimento di Ceramica Italiana DOC. Un “veicolo” sui generis che ha fatto sì che la fama di questa cittadina a circa 25 km dal capoluogo Catanzaro viaggiasse letteralmente nel mondo, oggi come ieri, risalendo indietro nei secoli.
Le prime testimonianze di quest’antica arte sono riferite al 1654, data riportata sul fondo di un grande piatto da parata, ingobbiato, con intrecci e figurazioni in giallo oro, graffiti sul fondo rosso scuro del biscotto. Un lavoro di ispirazione araba con tanto di marchio sul retro che non lascia dubbi, “Sqllci”, e che evidenzia una chiara continuità con la similare ceramica bizantina.
Nata probabilmente in Magna Grecia, era una tecnica già ampiamente conosciuta nel mondo romano, che continuò a essere praticata a Bisanzio anche dopo la decadenza di Roma e si diffuse poi in tutta l’Italia meridionale e soprattutto in Calabria grazie all’espansione politica bizantina, iniziata nel VI secolo e consolidata nel IX secolo anche sul piano religioso-culturale grazie alla diffusione del monachesimo basiliano. Risalgono invece all’inizio dell’XI secolo alcuni documenti riportanti i nomi di figuli locali, artisti quali un certo “Giovanni” detto “Cannata” e Sergio detto “Scutelli”, entrambi nativi di Squillace e presenti all’assedio di Capua del 1098.
Secoli d’oro della produzione locale furono in particolare il XVI e il XVII, di cui rimangono anfore, grandi piatta di parata, bottiglie, idrie farmaceutiche e crateri tutti di notevolissima fattura e attualmente conservati negli importanti musei sopra citati, da Napoli a New York. Per cogliere la bellezza di certi manufatti e la ragione di una fama così diffusa e duratura basta fare due passi lungo il Viale fuori le Porte, nel centro storico di Squillace, dove è un susseguirsi di botteghe artigiane che con orgoglio tramandano questa raffinata cultura atavica.
Il Castello di Squillace è un affascinante maniero normanno costruito nel 1044, ma a fargli guadagnare fama internazionale non è stata la sua architettura non comune, dovuta a un continuo sovrapporsi di stili e rimaneggiamenti, bensì il ritrovamento di due scheletri agli inizi degli anni Novanta. Un evento che ha generato la leggenda del “mistero dei due amanti”, anche se non è sicuro si tratti proprio di amanti. C’è chi dice che fossero due fratelli, e chi due soldati, uno svevo e uno angioino, morti durante una delle numerose battaglie avvenute fra queste mura. Ciò che rimane una certezza è la piacevolezza di una visita che in pochi passi transita dall’epoca gloriosa di Federico II di Svevia, ai lasciti degli Angioini fino all’ultima dominazione dei Borgia, il cui stemma campeggia ancora sul portale a bugnato d’ingresso. Il tutto in un contesto quasi mitologico, che fa risalire le origini di Squillace a Odisseo, Ulisse, che qui si fermò durante il suo interminabile viaggio verso Itaca.
San Floro oggi come ieri. Un breve inciso che riassume più di mezzo millennio di storia della Calabria, in particolare della città di Catanzaro e quindi di questo piccolo borgo abitato da 600 anime. Dal ‘300 al ‘700, tale provincia era infatti il cuore di una fiorente industria, quella della produzione di seta e filati che da questo angolo del Sud Italia viaggiava in tutta Europa.
Nonostante il passare del tempo e delle mode, tale cultura non ha mai abbandonato le tradizioni locali, come testimonia il costante uso di costumi in pura seta, ma soprattutto il recente recupero di 5 ettari di terreno e di circa tremila gelsi gestiti dalla Cooperativa Nido di Seta, che hanno riavviato l’industria e l’interesse per un pezzo di storia locale meritevole di essere conosciuta e rivalutata. La stessa mission ce l’ha il Museo della Seta allestito dentro il quattrocentesco Castello Caracciolo di San Floro, il cui percorso ricalca l’intera filiera produttiva, dagli antichi telai alle tinture naturali ricavate da papaveri, radici di robbia, margherite di campo, iperico, malli di noce e dalla celbre cipolla rossa di Tropea, icona dei prodotti calabresi. Bellissima anche la collezione di abiti d’epoca, damaschi catanzaresi, paramenti sacri damascati, di archeologia industriale e di seta grezza contemporanea, distinta per lavorazione all’uncinetto e tessuti al telaio antico a quattro licci.
Dal 1989, Palazzo San Domenico a Taverna, in provincia di Catanzaro, accoglie nel suo suggestivo ex Cenobio del Quattrocento, il Municipio del borgo e il Museo Civico. Qui ha sede anche il centro studi dedicato al pittore Mattia Preti (Taverna 1613 – La Valletta, Malta 1699), meta ogni anno di migliaia di visitatori, fra cui molti esperti e studiosi d’arte specializzati in quel periodo. Il contesto è quello di un borgo medievale ben conservato, immerso nella natura rigogliosa e incontaminata del Parco della Sila Piccola, caratterizzato da numerosi villaggi dove è ancora possibile respirare atmosfere autentiche e vivere un’esperienza di vero slow travel.
Il Museo di Capodimonte di Napoli, il Museo Civico di Rovereto, il Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, il Victoria and Albert Museum di Londra e il Metropolitan di New York hanno un minimo comun denominatore: reperti di varie epoche realizzati in ceramica graffita di Squillace, lavorazione così particolare da aver ricevuto il riconoscimento di Ceramica Italiana DOC. Un “veicolo” sui generis che ha fatto sì che la fama di questa cittadina a circa 25 km dal capoluogo Catanzaro viaggiasse letteralmente nel mondo, oggi come ieri, risalendo indietro nei secoli.
Le prime testimonianze di quest’antica arte sono riferite al 1654, data riportata sul fondo di un grande piatto da parata, ingobbiato, con intrecci e figurazioni in giallo oro, graffiti sul fondo rosso scuro del biscotto. Un lavoro di ispirazione araba con tanto di marchio sul retro che non lascia dubbi, “Sqllci”, e che evidenzia una chiara continuità con la similare ceramica bizantina.
Nata probabilmente in Magna Grecia, era una tecnica già ampiamente conosciuta nel mondo romano, che continuò a essere praticata a Bisanzio anche dopo la decadenza di Roma e si diffuse poi in tutta l’Italia meridionale e soprattutto in Calabria grazie all’espansione politica bizantina, iniziata nel VI secolo e consolidata nel IX secolo anche sul piano religioso-culturale grazie alla diffusione del monachesimo basiliano. Risalgono invece all’inizio dell’XI secolo alcuni documenti riportanti i nomi di figuli locali, artisti quali un certo “Giovanni” detto “Cannata” e Sergio detto “Scutelli”, entrambi nativi di Squillace e presenti all’assedio di Capua del 1098.
Secoli d’oro della produzione locale furono in particolare il XVI e il XVII, di cui rimangono anfore, grandi piatta di parata, bottiglie, idrie farmaceutiche e crateri tutti di notevolissima fattura e attualmente conservati negli importanti musei sopra citati, da Napoli a New York. Per cogliere la bellezza di certi manufatti e la ragione di una fama così diffusa e duratura basta fare due passi lungo il Viale fuori le Porte, nel centro storico di Squillace, dove è un susseguirsi di botteghe artigiane che con orgoglio tramandano questa raffinata cultura atavica.
Il Castello di Squillace è un affascinante maniero normanno costruito nel 1044, ma a fargli guadagnare fama internazionale non è stata la sua architettura non comune, dovuta a un continuo sovrapporsi di stili e rimaneggiamenti, bensì il ritrovamento di due scheletri agli inizi degli anni Novanta. Un evento che ha generato la leggenda del “mistero dei due amanti”, anche se non è sicuro si tratti proprio di amanti. C’è chi dice che fossero due fratelli, e chi due soldati, uno svevo e uno angioino, morti durante una delle numerose battaglie avvenute fra queste mura. Ciò che rimane una certezza è la piacevolezza di una visita che in pochi passi transita dall’epoca gloriosa di Federico II di Svevia, ai lasciti degli Angioini fino all’ultima dominazione dei Borgia, il cui stemma campeggia ancora sul portale a bugnato d’ingresso. Il tutto in un contesto quasi mitologico, che fa risalire le origini di Squillace a Odisseo, Ulisse, che qui si fermò durante il suo interminabile viaggio verso Itaca.
San Floro oggi come ieri. Un breve inciso che riassume più di mezzo millennio di storia della Calabria, in particolare della città di Catanzaro e quindi di questo piccolo borgo abitato da 600 anime. Dal ‘300 al ‘700, tale provincia era infatti il cuore di una fiorente industria, quella della produzione di seta e filati che da questo angolo del Sud Italia viaggiava in tutta Europa.
Nonostante il passare del tempo e delle mode, tale cultura non ha mai abbandonato le tradizioni locali, come testimonia il costante uso di costumi in pura seta, ma soprattutto il recente recupero di 5 ettari di terreno e di circa tremila gelsi gestiti dalla Cooperativa Nido di Seta, che hanno riavviato l’industria e l’interesse per un pezzo di storia locale meritevole di essere conosciuta e rivalutata. La stessa mission ce l’ha il Museo della Seta allestito dentro il quattrocentesco Castello Caracciolo di San Floro, il cui percorso ricalca l’intera filiera produttiva, dagli antichi telai alle tinture naturali ricavate da papaveri, radici di robbia, margherite di campo, iperico, malli di noce e dalla celbre cipolla rossa di Tropea, icona dei prodotti calabresi. Bellissima anche la collezione di abiti d’epoca, damaschi catanzaresi, paramenti sacri damascati, di archeologia industriale e di seta grezza contemporanea, distinta per lavorazione all’uncinetto e tessuti al telaio antico a quattro licci.
Dal 1989, Palazzo San Domenico a Taverna, in provincia di Catanzaro, accoglie nel suo suggestivo ex Cenobio del Quattrocento, il Municipio del borgo e il Museo Civico. Qui ha sede anche il centro studi dedicato al pittore Mattia Preti (Taverna 1613 – La Valletta, Malta 1699), meta ogni anno di migliaia di visitatori, fra cui molti esperti e studiosi d’arte specializzati in quel periodo. Il contesto è quello di un borgo medievale ben conservato, immerso nella natura rigogliosa e incontaminata del Parco della Sila Piccola, caratterizzato da numerosi villaggi dove è ancora possibile respirare atmosfere autentiche e vivere un’esperienza di vero slow travel.
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La performance della struttura è contrassegnata graficamente da una, due o tre corone, a seconda del punteggio percentuale, ottenuto durante la visita di valutazione, basato sui seguenti criteri:
Qualità del servizio, Promozione del Territorio, Identità e Notorietà.