Si viaggia indietro nel tempo, dalla preistoria all’età romana, visitando il Museo Archeologico Statale di Arcevia, borgo dell’anconetano con un territorio che numerose campagne di scavo hanno dimostrato essere stato abitato sin da epoche remote. Si va dai reperti dei siti paleolitici di Ponte di Pietra e Nidastore, del villaggio fortificato eneolitico di Conelle, degli insediamenti di Cava Giacometti, sfruttato dal Neolitico all’Età del bronzo, e di Monte Croce Guardia, quest’ultimo in particolare oggetto di scavi dell’università La Sapienza di Roma e della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio delle Marche.
Grazie proprio a quest’ultima, in collaborazione con il Comune di Arcevia, nel 1996 è stato possibile inaugurare il Museo Archeologico in una location di tutto rispetto, accanto al suggestivo Chiostro di San Francesco. Il percorso espositivo comprende anche i corredi di nove tombe della famosa necropoli gallica di Montefortino, ricchi di oreficerie, statuette votive, ceramiche e bronzi di origine etrusca..
La mostra “Albrecht Dürer. Incisioni e fortuna del Ducato di Urbino” è solo una delle preziose esposizioni d’arte realizzate di recente a Palazzo Ubaldini ad Apecchio, borgo medievale della provincia di Pesaro Urbino. Per secoli terra di transito, Apecchio è la summa di culture assai diverse fra loro: Piceni, Umbri e Celti, Etruschi e Romani, forieri di tradizioni rimaste scolpite nella pietra di monumenti antichi e nei costumi delle genti locali. Dal XIII secolo in poi, lo scenario di tutta la Vaccareccia – il territorio percorso dal fiume Biscubio – diventa invece dominio degli Ubaldini di Firenze, che appena fuori Apecchio realizzano
un imponente castello, oggi purtroppo andato perso. E’ nella metà del Quattrocento che invece si trasferiscono in paese, nella dimora del conte Ottaviano II Ubaldini, progettata da uno degli architetti più celebri dell’epoca, il senese Francesco di Giorgio Martini. Identificativo dell’edificio è il bel loggiato d’onore, formato da otto colonne sormontate da raffinati capitelli ionici e con al centro una neviera, e su cui guardano le stanze riccamente adorne del piano nobile.
Al piano terra è invece ricavato il Teatro Comunale “G. Perugini”, il più piccolo delle Marche con appena 42 posti fra platea e palchi, e la Sala di Musica, ambientata in quella che nel Rinascimento era l’aula di giustizia. La visita di Palazzo Ubaldini prosegue nel piano sotterraneo, dove trovano spazio scuderie e cantine, oggi sede del Museo dei Fossili e Minerali del Monte Nerone, che ospita una delle collezioni di ammoniti e materiale paleontologico vario più ricche e interessanti d’Europa. Dal sotterraneo si sale al piano nobile del palazzo, dove l’esposizione vira in ambito archeologico, mettendo in mostra reperti di varie epoche. Di fronte a Palazzo Ubaldini, sorge la pieve di San Martino, oggi santuario del SS. Crocifisso, dove da notare sono il Crocifisso ligneo del XVII secolo, alcuni dipinti del Seicento, tra i quali la “Madonna del Carmelo” attribuita a Giovan Giacomo Pandolfi, e un affresco battesimale attribuito a Giorgio Picchi.
Palazzo Carpegna a Carpegna, in provincia di Pesaro- Urbino, nasce come seconda dimora dei “padroni” del borgo, i Conti di Carpegna, che fino al 1674 avevano abitato nel Castello un tempo posto appena sopra l’edificio. Le esigenze “moderne” e la voglia di mettere in mostra il proprio potere, oltre che la necessità di avere una dimora di più facile accesso e nel cuore del paese, spinsero i Conti a commissionare il progetto a Giovanni Antonio De’ Rossi di Roma, uno dei migliori architetti dell’epoca, cui subentrò poi Antonio Bufalini. Vent’anni dopo, nel 1696, Palazzo Carpegna apriva finalmente le porte, con la sua mole da fortezza ispirata alle ville incastellate di matrice fiorentina.
Assedi, incendi e purtroppo i due forti terremoti del 1781 e del 1786 richiesero numerosi lavori di ristrutturazione, cui contribuì anche il governo pontificio. Nel 1819 il palazzo passò alla Santa Sede, per poi tornare nel 1851 di proprietà dei Carpegna-Falconieri, divenuti nel frattempo Principi, i cui discendenti tuttora lo abitano.
Al suo interno sono oggi custoditi importanti arredamenti d’epoca, la biblioteca con un vasto archivio del periodo rinascimentale, numerosi reperti archeologici della zona e la cappella di famiglia. Un tesoro che nel 1943 si impreziosì a dismisura grazie all’arrivo di capolavori provenienti da Milano, Venezia e Roma nel tentativo di salvarli dai bombardamenti. Fu così che tele di Donatello, Veronese, Raffaello, Tiziano, Antonello da Messina, Pinturicchio, Beato Angelico, Bramante, Piero della Francesca, Tintoretto, Caravaggio, oltre ai reperti di Tarquinia, trovarono riparo in una stanza segreta del Palazzo, dando vita a una concentrazione di opere d’arte dal valore inestimabile.
Senza la continua minaccia dei Saraceni, le coste della Calabria e del Sud Italia in generale sarebbero molto diverse, perché la loro frequenza determinò la nascita di fortilizi e costruzioni difensive un po’ ovunque che oggi costituiscono un elemento assai caratterizzante del paesaggio. Ne è un esempio la Torre Aragonese nei pressi del borgo di Melissa, nel crotonese, nota anche come Torre Melissa o Torrazzo, eretta nel XII secolo e caratterizzata da due dettagli architettonici che la rendono unica nel Mediterraneo: la struttura cilindrica troncoconica – con un diametro esterno di 26,50 metri contro i 10 della corte interna – e la raffinata decorazione merlata. La struttura imponente sembra più quella di un piccolo castello, tanto che nei secoli si è prestata a ospitare una residenza nobiliare, passata di mano in mano ai Signori locali. La torre è oggi ben conservata e ospita al suo interno il Museo della Civiltà Contadina. Una volta terminata questa full immersion nel passato, ci si può tuffare nelle acque azzurre della spiaggia sottostante, classificata Bandiera Blu come quella della vicina Cirò Marina, con cui condivide anche il territorio d’origine del vino Cirò Dop.
1949-1979. Il Monumento ai Caduti di Fragalà venne eretto in occasione del trentesimo anniversario della strage passata alla storia come” eccidio di Fragalà“. Fragalà era un fondo nei pressi del borgo di Melissa, nel crotonese, assegnato dalla legislazione borbonica del 1811 per metà alla casata dei Berlingeri e per la restante parte al Comune. Nella realtà, col tempo i Berlingeri avevano poi occupato l’intero latifondo. Negli anni immediatamente seguenti la Seconda Guerra Mondiale, e in particolare nel 1949, ben 14.000 contadini nella sola Calabria scesero in piazza per protesta perché i nobili non volevano consentire che le terre da loro abbandonate o in disuso fossero concesse ai mezzadri così come aveva stabilito una legge del Ministero dell’Agricoltura. Nell’ottobre del 1949, a Melissa, un gruppo di contadini fu attaccato dalle forze dell’ordine e tre manifestanti furono uccisi. L’evento ebbe una grande risonanza in tutto il Paese e anche all’estero, suscitando commozione e indignazione . Trent’anni più tardi, l’artista Ernesto Treccani, figlio del fondatore dell’omonima enciclopedia, donò ai cittadini di Melissa il Monumento a ricordo dell’eccidio. Il drammatico episodio ispirò anche alcune sue opere racchiuse nel ciclo “Da Melissa a Valenza”.
Cirò, o meglio Cirò Superiore, da distinguersi da Cirò Marina, sul litorale. Poco più di 2500 abitanti e una fama che travalica i confini della Calabria e non solo. E questo grazie al suo prodotto d’eccellenza, il bianco Cirò Dop, ma soprattutto per le molte bellezze storico-artistiche che riserva il suo centro storico, chiuso da una cinta muraria medievale. Quattro le porte da cui si accedeva ieri come oggi: Scezzari, Cacovia, Falcone e Mavilia. Quest’ultima è il varco verso il centrale Corso Luigi Lilio, omaggio al cittadino più celebre di Cirò, medico, astronomo e matematico italiano del Cinquecento, inventore del Calendario Gregoriano. Proseguendo, da qui si raggiunge la piazza principale, su cui affacciano le due principali attrazioni, il Castello Carafa e la Chiesa matrice di Santa Maria de Plateis.
Galeotto Malatesta. Un nome che a Corinaldo è sinonimo di distruzione. Fu lui infatti che nel 1360 rase al suolo questo antico borgo marchigiano nell’entroterra di Senigallia, ma ciò non impedì che i suoi abitanti lo ricostruissero da zero e anche meglio, come dimostra il fatto che oggi è inserito fra i “Borghi più belli d’Italia”. Ad accogliere i visitatori è un’imponente cinta muraria medievale, fra le meglio conservate non solo delle Marche ma forse d’Italia, cosa che ha preservato il centro storico da altre invasioni e distruzioni. Asse del paese è la Via Piaggia, una suggestiva scalinata di 109 gradini su cui incombono tutt’attorno case in mattoni rossi disposte a spina di pesce, e a metà della quale si trova il Pozzo della Polenta. Nome curioso che allude a un fatto storico che ha segnato il paese: nel ‘400, venne realizzato un pozzo per l’approvvigionamento idrico, poi interrato e infine ricostruito nel 1980. Da allora, proprio in questo luogo, ogni terza domenica di luglio viene rievocata una gloriosa pagina di storia, la cosiddetta Contesa del Pozzo della Polenta, a ricordo dell’eroica resistenza perpetrata nel 1517 dalla popolazione contro l’assedio di Francesco Maria I della Rovere.
Risale invece agli inizi del Novecento la triste vicenda della giovane martire Maria Goretti, nata a Corinaldo nel 1890 e morta a soli 12 anni in un tentativo di stupro e infine proclamata santa nel 1950. Nel borgo si visitano in sua memoria il Santuario di Santa Maria Goretti, dove è collocata un’urna in argento contenente una sua reliquia, e la casa natale, appena fuori dal paese.
Nel borgo c’è un’altra casa che richiama attenzione, ma per una storia assai diversa. E’ la cosiddetta Casa di Scuretto, soprannome dato a un certo Gaetano, ciabattino perditempo il cui figlio emigrato in America aveva fatto fortuna. Per anni aveva dunque mantenuto il padre inviandogli i propri guadagni, a patto che costui costruisse una bella casa per quando sarebbe rimpatriato. Gaetano però sperperava sempre tutto, e per continuare l’inganno, fece costruire una facciata, solo quella, e inviò la foto in America come prova. Il figlio però capì l’inganno e smise di mandare il denaro. La facciata è ancora lì, in piedi, al civico 5 di Via Piaggia, a ricordo anche di un’epoca di grandi flussi emigratori verso gli Stati Uniti.
Cirò è nota come la “Città del vino e del calendario” perché è “capitale” della zona d’origine della prima Dop calabrese – vale a dire del Cirò Dop – e perché diede i natali a Luigi Lilio, ideatore nel 1582 del calendario Gregoriano, che dopo 15 secoli sostituì quello promulgato nel 46 a.C. da Giulio Cesare. Cirò trova il suo centro nel Castello Carafa, posto nella parte alta del borgo antico. L’edificio, costruito fra il XIV e il XVI secolo, si evidenzia per la sua insolita pianta trapezoidale con torri circolati e un bastione pentagonale merlato, e per la corte interna la cui pavimentazione presenta un lastricato in pietra locale con un motivo a stella a nove punte circoscritto da un cerchio. Al piano superiore si sviluppano invece due appartamenti e altre stanze per la servitù.
Accanto al Castello di Cirò Superiore – l’abitato a monte rispetto a Cirò Marina, sul litorale – si erge la cosiddetta Torre Normanna, ritenuta essere il nucleo più antico del maniero stesso. Si tratta di un bastione pentagonale merlato, che poggia su una base circolare scarpata, attribuito alla nobile casata dei Carafa, feudatari di Cirò dal 1496 al 1542. Secondo alcuni studiosi altro non sarebbe che il frutto di un ampliamento di una preesistente fortificazione normanna dovuto a esigenze difensive, come avvenne contestualmente per il Palazzo della Licie, l’attuale Castello Sabatini, per il quale è documentata una ristrutturazione verso la fine del ‘500 con l’aggiunta di bastioni ai quattro angoli. Benché non visitabile per motivi di sicurezza, merita attenzione per la sua architettura esterna, ben visibile da Corso Luigi Lilio e dalla panoramica Piazza Mavilia.
Anche un piccolo borgo del crotonese come Cirò ha offerto il suo tributo in vite umane all’esito dei conflitti bellici del Novecento. Se ne ha una misura camminando lungo il centrale Corso Luigi Lilio, dove ci si imbatte nel Monumento ai Caduti della Prima e Della Seconda Guerra Mondiale. Realizzato in marmo, cemento, pietra e bronzo, è piuttosto imponente e articolato, e frutto di due diversi momenti: nel 1921, anno di inaugurazione, fu infatti posta una lapide in bronzo con incisi i nomi dei 96 soldati nativi di Cirò scomparsi durante la Grande Guerra, mentre nel 1949 fu aggiunta una nuova lapide in marmo relativa ai caduti del secondo conflitto. Fulcro del monumento è infine una statua bronzea raffigurante un soldato ferito che stringe al petto un fucile.